L’angolo di Michele Anselmi
C’è un gran bel film da vedere su Netflix dal 16 novembre scorso. Si chiama “Il prodigio”, è scritto e diretto dal regista cileno Sebastián Lelio, classe 1974, quello di “Gloria” e “Una donna fantastica”, nasce da un romanzo della scrittrice irlandese Emma Donoghue pubblicato anche in Italia, è naturalmente parlato in inglese nella versione originale che di gran lunga raccomando (certo con l’aiuto dei sottotitoli).
“Non siamo niente senza le storie” recita nell’incipit una voce femminile. La cinepresa inquadra l’interno di un teatro di posa, tra tubi innocenti e materiali da ripresa, poi si sposta dolcemente e ci ritroviamo, senza soluzione di continuità, all’interno di un piccolo bastimento, tra acqua che sgocciola e vento insidioso. È il 1862. Una giovane donna mangia una zuppa: si chiama Elizabeth “Lib” Wright, è inglese, fa l’infermiera di professione (ha visto morire tanti soldati in Crimea), dice di essere vedova, sta dirigendosi in uno sperduto villaggio rurale dell’Irlanda. L’hanno assunta gli uomini influenti della contea, insieme a un’anziana suora, perché dica la sua, osservando e controllando per due settimane, su una specie di miracolo in quei luoghi remoti.
Una ragazzina di undici anni, Anne O’Connell, figlia di contadini cattolici osservanti, non mangia da quattro mesi e sembra non patire i segni della fame. “Non ho bisogno di mangiare, mi nutre la manna dal cielo” sorride l’adolescente, come in preda a un irenico misticismo. In effetti l’infermiera non trova cibo nella soffitta della casa, immersa nella brughiera fangosa, nella quale vive la ragazzina. E tutto sembra confermare che di “prodigio” si tratti. Ma “Lib”, abituata a stordirsi con del laudano di fronte a due scarpine di lana da neonata, non ci sta: vede che la “santa” sta deperendo giorno dopo giorno, le funzioni vitali s’indeboliscono, i denti cominciano a cadere. Che cosa fare per salvarla? E soprattutto: perché Anne ha accettato quel sacrificio supremo? Che cosa nasconde?
“Il prodigio” si chiude dove era cominciato: da un altro bastimento, stavolta più ricco e ospitale, si torna a quello studio di posa con luce al neon, ma stavolta una donna vestita di nero, in abiti moderni, scandisce una strana nenia sul “dentro” e il “fuori”.
Confesso che l’abolizione della cosiddetta “quarta parete” non mi ha infastidito affatto, perché l’impasto di metacinema è condito con gusto dal regista cileno in trasferta irlandese, come una cornice, più suggestiva che teorica, che si misura con il piacere del raccontare, appunto, storie. L’atmosfera della messa in scena è minimalista, con pochi tocchi musicali, lunghe camminate in quei paesaggi splendidi e desolati, con tocchi pittorici nella scelta della luce che rimandano a certa pittura ottocentesca inglese (forse Helen Hallingham, George Clausen, Alfred Rankley…). Il punto di vista è chiaro: tutti in quel villaggio vogliono credere al “miracolo”, tanto da far morire di stenti la poveretta, non la razionalista infermiera, con un segreto nella valigia e la voglia di opporsi a quella che le sembra una superstizione, un fanatismo, anzi una menzogna.
Leggo recensioni negative in rete, specie firmate da donne: non capisco perché. A me sembra un film intenso e misterioso, tutte le facce sono giuste, non ci sono orpelli, semmai una rigorosa ricostruzione d’ambiente, e non ho mai visto così brava Florence Plugh, che fa “Lib” dividendo la scena con la piccola Kila Lord Cassidy (l’invasata Anne) e Tom Burke (il reporter scettico). Tranquilli: finisce bene, come piace a me.
Michele Anselmi