L’angolo di Michele Anselmi 

Su Paramount+ ho finito ieri sera di vedere “1883”, il primo dei due antefatti di “Yellowstone”. So bene che su Sky stanno dando, in questi giorni, le prime due puntate della quinta stagione, Kevin Costner ancora protagonista, ma, da spettatore, avevo bisogno di chiudere la malinconica epopea narrata da quel “prequel” (che brutta parola, lo so), sempre scritto da Taylor Sheridan e diretto da Ben Richardson. Erano anni che non vedevo, tra grande e piccolo schermo, qualcosa che mi toccasse così profondamente come “1883”.
Dice: bella fatica, a te piacciono i film western, basta che vedi un cavallo e un Winchester! Vero, ma c’è western e western: so separare, credo, il grano dal loglio, distinguere tra ispirazione e accademia, drammaturgia spessa e aria fritta, senso dello spettacolo e senso del commercio. “1883” è una western classico, a suo modo: racconto il lungo viaggio di una carovana di pionieri (tedeschi) dal Texas all’Oregon e insieme la vita di alcuni cowboy americani, tutti segnati da lutti, guerre e sofferenze. Tra essi James Dutton, progenitore di John Dutton III, ovvero Costner, un ex capitano confederato che si ritrova con la moglie e i due figli a viaggiare verso una terra promessa: la troverà nel Montana e non sarà una scelta facile fermarsi lì.
Si possono citare, volendo, i più diversi riferimenti cinefili, da John Ford ad Anthony Mann, da Howard Hawks a Raoul Walsh, da Sam Peckinpah a Walter Hill, da Scott Cooper a Paul Greengrass, ma credo che sia abbastanza inutile. Roba per noi del giro. Sheridan e Richardson, appunto sceneggiatore e regista, custodiscono un stile che pesca nella tradizione e insieme la rinnova, dentro un discorso, tutt’altro che peregrino o poetizzante, su quello che fu definito il selvaggio West, colto in un momento di transizione storica, ancora non infiacchito da coloriture crepuscolari, ma spaventoso e struggente allo stesso tempo.
Chi è abituato ai tempi mozzafiato delle serie oggi alla moda probabilmente non si adatterà la narrazione distesa, all’io narrante di Elsa, bionda e ribelle figlia del protagonista, a quel senso di morte immanente che alita su tutta la dolorosa transumanza di uomini e bestie. Consiglio di vedere la miniserie in inglese, con i sottotitoli, perché solo così si riesce ad apprezzare la profondità e le sottigliezze di quelle voci in presa diretta, a partire da quelle di Sam Elliott, Tim McGraw e Isabel May, cioè rispettivamente il baffuto capocarovana, il fondatore del ranch Yellowstone e la figlia indocile e un po’ “indiana”.

Michele Anselmi