L’angolo di Michele Anselmi

Il 6 aprile del 1917 non si direbbe scelto a caso. Proprio quel giorno gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania e di lì a poco avrebbero inviato i loro uomini a combattere nella vecchia Europa per dare una mano alle esauste armate francesi e britanniche. Tuttavia in “1917” non si vedono soldati americani, perché all’inglese Sam Mendes, che pure si rivelò con “American Beauty”, interessa raccontare un’altra storia, che pesca nelle memorie del nonno caporale Alfred, benché in una chiave di parziale reinvenzione dei fatti dentro una cornice ferocemente realistica.
Ora ci sono due modi di vedere “1917”, nelle sale da giovedì 23 con 01-Raicinema: può sembrare solo un prodigioso quanto inutile esercizio di stile, una cosa virtuosistica da “war-game”, senza costrutto, fatta per strappare l’applauso e probabilmente l’Oscar; o, al contrario, ci si tuffa smarriti nell’inferno bellico, quasi in tempo reale, che il regista di “Skyfall” ricostruisce sullo schermo, affidandosi a una storia esile ma efficace, a suo modo altamente simbolica.
Fate voi. A me è piaciuto, nel senso che non ho trovato vuoto, cioè fine a sé stesso, il procedimento estetico escogitato da Mendes insieme al suo direttore della fotografia Roger Deakins: la cronaca di una missione impossibile girata come se fosse un unico piano sequenza lungo quasi due ore, senza tagli di montaggio insomma. Il trucco c’è ma non si vede, e quando, sul far della notte, arriva una cesura di alcuni secondi su fondo nero mi auguro che nessuno pensi a una trovata solo tecnica.
La vicenda si può riassumere in poche righe. Due soldati britannici, i caporali Schofield e Blake dell’8° Battaglione, hanno un dispaccio da consegnare urgentemente al 2° Devon che sta per attaccare i tedeschi qualche chilometro più in là. Trattasi di trappola: i “crucchi” hanno abbandonato le loro trincee fingendo una ritirata, e adesso 1.600 inglesi rischiano di essere decimati se usciranno allo scoperto convinti di avere davanti un esercito in rotta.
Siamo nella Francia settentrionale, dalle parti della cosiddetta Linea Hindenburg, non lontani dalla Somme, teatro di una spaventosa battaglia appena un anno prima (più di un milione di morti). Schofield recalcitra, ha due figli e una moglie che l’aspettano, ma come si fa a lasciare solo Blake, più inesperto e giovane, per di più con un fratello che sta per essere ucciso se il messaggio non arriverà in tempo?
Da “Orizzonti di gloria” a “Uomini contro”, da “La Grande Guerra” a “War Horse”, per non dire di classici come “All’Ovest niente di nuovo” o “La grande illusione”, il mattatoio ‘14-‘18 è stato rievocato al cinema con varietà di stili e prospettive. Mendes prende le distanze dagli illustri modelli per spingere alle estreme conseguenze, rischiando, la scommessa di far precipitare lo spettatore in un’esperienza totalmente immersiva, un po’ come fece Spielberg con lo spaventoso incipit di “Salvate il soldato Ryan”. Così la cinepresa sta incollata ai due fantaccini, che avanzano nella trincea prima di inoltrarsi in una lunare “terra di nessuno”, tra topi, melma, filo spinato, corpi in decomposizione, cavalli sventrati, mucche uccise dai tedeschi, carcasse di carri armati, insidie di ogni genere. Unica nota di bellezza: i ciliegi in fiore, anch’essi, però, recisi dai nemici.
Diviso in tre parti, anche sul piano visivo, “1917” custodisce qualche tragica sorpresa che non rivelerò; e intanto la spettrale cittadina di Écoust-Saint-Mein, tra bagliori e rovine, strane presenze e tedeschi ubriachi, come dentro a un’allucinazione, diventa il percorso obbligato per completare la missione all’alba.
Curiosamente scritto da Mendes con una donna, Krysty Wilson-Cairns, “1917” ha il pregio di far dimenticare presto l’artificio estetico alla base delle riprese, un po’ come succede col trucco prostetico di Favino-Craxi in “Hammamet”. Tutto è ricostruito con cura maniacale (divise, borracce, fucili Lee-Enfield, elmetti a padella, giberne, giubbetti di pelle senza maniche, perfino i bottoni) affinché lo spettatore dopo un po’ non ci faccia più caso e viva l’orrore ad occhi aperti di chi deve raggiungere in tempo, per evitare la carneficina, gli ignari commilitoni.
Non tutto torna, i dialoghi sono radi e poco determinanti, qualche sequenza è “effettata” oltre misura, ma forse un motivo “clinico” c’è. Poi, certo, “1917” può sommamente annoiare o parecchio piacere. I due valorosi sono incarnati, opportunamente, da due attori poco conosciuti, George MacKay (Schofield) e Dean-Charles Chapman (Blake), mentre i nomi noti stanno nelle retrovie, a mo’ di partecipazione speciale: Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch, Richard Madden.
Occhio alla canzone che si sente in sottofinale, nell’alba irreale del bosco di Croisilles, intonata da un soldato nel silenzio mesto che precede la battaglia. Trattasi di “Wayfaring Stranger”, un toccante gospel ottocentesco, che parla di un povero viandante che deve metaforicamente attraversare il biblico fiume Giordano per ricongiungersi ai suoi…

Michele Anselmi