La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 14
Mica facile racchiudere un libro di 1.294 pagine in un film di 115 minuti. Ci prova Stefano Mordini con “La scuola cattolica”, dall’omonimo (e autobiografico) romanzo di Edoardo Albinati, vincitore dello Strega 2016. Accolto tra i fuori concorso al Lido, il film è di quelli destinati a suscitare vivaci controversie, specie sul fronte giornalistico cattolico; bisognerà poi vedere se il pubblico giovanile, al quale pure è rivolto, risponderà quando sarà nelle sale, ai primi di ottobre, con Warner Bros.
Mordini piazza in apertura la scena che nel romanzo arriva a pagina 473: ovvero la Fiat bianca lasciata per strada dai due giovani stupratori e assassini del Circeo. Una delle due ragazze credute morte, Donatella Colasanti, con le forze residue bussa dall’interno del portabagagli sentendo dei passi. Da lì si vola a “sei mesi prima”, per poi riavvicinarsi in un andirivieni temporale a quell’orribile notte tra il 29 e il 30 settembre 1975. Del resto, lo stesso Albinati, che non collabora al copione firmato dal regista insieme a Massimo Gaudioso e Luca Infascelli, scrive nel libro: “L’ho presa un bel po’ alla larga? Avete ragione: ma era la natura stessa del delitto a richiedere che se ne raccontassero i preliminari; o piuttosto, i cerchi concentrici che lo avvolgono (…). La scuola, i preti, i maschi, il quartiere, le famiglie, la politica”.
Mordini, classe 1968, alla Mostra anche l’anno scorso con “Lasciami andare”, orchestra un film complicato e corale, forse troppo ambizioso, però efficace nel crescendo tragico. Non direi che sia “assolutorio”, come eccepiscono alcune colleghe; e poco mi convince l’altra contestazione ascoltata, secondo la quale Mordini avrebbe cancellato il contesto storico, le turbolenze post-sessantottine, l’infuocato clima politico della Capitale (in fondo quei “figli di papà” erano parcheggiati apposta nelle scuole cattoliche, nell’illusione di preservarli proprio dal mondo giovanile di sinistra). I difetti stanno altrove, ad esempio in una certa rozzezza della messa in scena o nello sguardo del giovane Albinati affidato a una voce narrante che però nel romanzo è quella riflessiva di un uomo maturo incline al ricordo.
Resta l’indagine su quella peggio gioventù, benestante e violenta, che avrebbe prodotti tre criminali come Angelo Izzo, Andrea Ghira e Giovanni Guida. “Queste ormai non servono più a niente” ghigna uno dei tre dopo aver infierito per infinite ore sui corpi di Rosaria e Donatella; e naturalmente il film rievoca non solo i fatti che portarono allo scempio, ma appunto le convergenti vicende – umane, familiari, sessuali – di quei tre e altri figli di papà tutti provenienti dalla scuola cattolica paritaria “San Leone Magno”, qui ribattezzata “San Luigi”. Citazioni d’atmosfera? I film “Storie immorali di Apollinaire” e “Profondo rosso”, il Battisti di “La collina dei ciliegi”, eccetera.
Allevati secondo il concetto di “persuasione, minaccia, punizione”, gli adolescenti in questione non appaiono poi così peggiori dei rispettivi genitori, meschini o brutali anch’essi. Magari ci sarebbe voluto un regista come Marco Bellocchio per rendere più allegorico l’affresco tra sociale e psicologico; ma Mordini, intrecciando la prova di attori noti e volti nuovi, si attiene alla prospettiva di Albinati, s’intende semplificandola per restituire la ferocia di quei ragazzi senza remore morali, del tutto impermeabili ai precetti del cattolicesimo pedagogico. Appunto: “Amici della morte, amici nella morte” come in una scena teorizza l’invasato Izzo dopo il misfatto del Circeo.
Michele Anselmi