20 sigarette | Recensione del film e intervista a Francesco Trento
Aureliano ha 28 anni, sul suo braccio c`è scritto “comunque vada nessun rimorso”; la sua è un esistenza veloce e in fondo senza troppe responsabilità, che si divide tra lavori a tempo determinato, centri sociali e una passione per il cinema che lo porta a filtrare, attraverso la soggettiva della sua videocamera, la vita che gli scorre intorno.
Un giorno sembra arrivare la svolta: Stefano Rolla, regista amico della sua famiglia, deve realizzare un lungometraggio in Iraq, al seguito della cosiddetta missione di pace italiana. Per questo progetto propone al giovane il ruolo di aiuto regista.
Tra le amichevoli proteste dei compagni pacifisti e una certa incoscienza di fondo, il ragazzo parte. Da questo punto in poi gli avvenimenti verranno scanditi dalle sigarette consumate sul suolo iracheno, appunto 20, durante le quali Aureliano si confronterà con una realtà in fondo diversa da quella che si aspettava, dove i soldati, i nemici di sempre di tante battaglie politiche, gli appaiono solo come altri ragazzi che anzi gli fanno da scorta e lo proteggono in quell`universo così alieno, dove il deserto lunare e minaccioso è attraversato da strane macchine su cui i soldati americani giocano a fare i cowboy, sequenza questa quasi dal sapore lynchano.
Aureliano non avrà appunto il tempo per vedere e conoscere l`altra parte, il popolo iracheno, perché quella stessa prima mattina tutto verrà cristallizzato per sempre nell`attentato di Nassyria, con la fortissima scena della deflagrazione che da sola vale tutto il film.
Da qui il dolore fisico della carne lacerata e poi dopo il rientro in Italia il ricovero in ospedale, con annesso tutto il carosello degli onori/orrori mediatici, fino all`incontro con i genitori di un giovane soldato nei cui occhi Aureliano aveva visto qualcosa e che di colpo lo immerge nella consapevolezza dell`irreversibilità di quello che era successo. Sì perché lui è l`unico, inspiegabile sopravissuto alla morte di 28 persone, compreso l`amico Stefano Rolla.
Sono passati anni, sul corpo di aureliano segni indelebili, un libro scritto e l`urgenza di continuare a parlare di quel viaggio seppur nell`impossibilità di essere capito fino in fondo e poi quel piccolo fantasma iracheno che torna a sconvolgerlo nei momenti di pace familiare e lo catapulta in un infinito senso di impotenza e di colpa.
L`opera prima di Amedei è tratta dal libro 20 sigarette a Nassirya, di nuovo presente nelle librerie in contemporanea con l`uscita nelle sale, scritto da Francesco Trento e dallo stesso regista, protagonista reale della storia.
Come il libro, la pellicola mantiene uno stile veloce e coinvolgente, anche nel finale dove quello che pare essere un piccolo ectoplasma distante dalla nostra dormiente quotidianità, ha invece un ben concreto peso specifico. Allora vengono in mente alcune parole cantante anni fa da un poeta contemporaneo: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. Ed è proprio questo il peso specifico del negativo, comunicarci che qualcosa sta accadendo, lontano dalla nostra vita ma contingente e presente. Il film comunque non prende una vera posizione, ma si pone come cronaca di quello che accadde ad Amadei, e per questo non può essere considerato un vero film sulla guerra, vista la parzialità delle informazioni, quanto sulle sfumature e i paradossi dei rapporti umani e quando incontro Francesco Trento per fargli qualche domanda non posso non chiedergli se a suo avviso questa potrebbe essere considerata un pecca del film.
Viste le polemiche suscitate dalla pellicola, ho voluto riportare integralmente la risposta di Francesco Trento, che sembra aprire delle riflessioni interessanti: «Il film non è un film sulla guerra, è un film sulla storia personale di Aureliano Amadei, che per caso si trova ad incrociare la storia con la s maiuscola, trovandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Non bisogna però confondere la pietas umana di Aureliano per i soldati che gli sono morti accanto, e con cui aveva fatto amicizia, con una inesistente ritrattazione delle sue idee pacifiste e antimilitariste.
Come ha detto Aureliano in conferenza stampa a Venezia, le sue posizioni per così dire ideologiche non sono cambiate di un millimetro. Era e resta contrario alla missione "di pace" in Iraq, e chi volesse approfondire questo aspetto può leggere il libro e trovarci le polemiche sulle mancate difese militari intorno alla caserma, sugli allarmi ignorati, sul fatto che ai militari in missione di pace veniva invece fatto firmare il codice militare di guerra, eccetera, oltre alle nostre opinioni del tutto avverse all`occupazione militare dell`Iraq.
Quel che è cambiato, però, è la percezione che Aureliano aveva dei militari. In Iraq ha incontrato persone, non divise: e se c`è stato il Miles Gloriosus che ha tentato di guadagnarsi una medaglia dicendo d`aver agito da eroe, ci sono stati anche dei begli incontri, con persone speciali come il maresciallo Olla o il tenente Ficuciello, che hanno lasciato un segno in Aureliano.
Il film è un oggetto parzialmente diverso rispetto al libro, che aveva la possibilità di parlare di più dell`intervento in Iraq. Nella pellicola seguiamo invece tutto con lo sguardo di Aureliano: siamo con lui sotto l`autocisterna, veniamo salvati dai civili iracheni che lo trasportano in ospedale, viviamo con lui lo straniamento rispetto alla sovraesposizione mediatica del ritorno in patria, l`amarezza per la parata in cui si trasformano i funerali di stato.
C`è senza dubbio più spazio all`emozione, e credo sia giusto così. Io stesso, nel vedere la scena di Aure coperto di sangue sulla camionetta che lo porta in ospedale, mi sono commosso».
Margherita Bozzao