Il 3D era un’ennesima strategia per combattere la crisi, che tentava di regalare l’illusione che tutto poteva accadere nella sala cinematografica. E se il 3D veniva usato bene poteva risaltare maggiormente l’opera. Qualche esempio: ne Il mostro della laguna nera (The Creature from the Black Lagoon, 1954) di Jack Arnold, le bellissime scene subacque benivano maggiormente esaltate in inedite volumetrie; ne Il delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954) Hitchcock, influenzato dal 3D, aveva rinunciato a ricorrere effetti scioccanti e si era accontentato di piazzare la macchina da presa in una buca, in modo che l’obiettivo si trovasse spesso ad altezza del pavimento. A porre la parola fine al 3D non furono il calo del pubblico, né la scarsa qualità artistica della maggioranza dei film, ma gli alti costi delle soluzioni tecniche di quegli anni. Molti esercenti si rifiutavano di equipaggiare i propri cinema anche perché nonostante i film in 3D attirassero un pubblico superiore alla media, il margine di profitto non si alzava. Si può facilmente immaginare lo stato delle sale cinematografiche sprovviste dell’equipaggiamento 3D, in particolar modo i drive-in, dove già solitamente la visione di un film era assai mediocre: gli altoparlanti nelle auto emettevano un suono atroce, spesso la pioggia offuscava l’immagine e il clima rigido invernale costringeva gli esercenti a chiudere. Lo stesso procedimento Vectograph, che permetteva di proiettare un film tridimensionale in una sola copia e non in due con due apparecchi di proiezione che dovevano funzionare simultaneamente, arrivò troppo tardi per il 3D. Gli anni ’60 e ’70 saranno contrassegnati da prodotti sempre più a basso costo, dove spesso e volentieri l’erotismo si univa all’horror. I casi più illustri e originali è il film coprodotto da Ponti e Wahrol: Il mostro è in tavola… barone Frankestein (Andy Warhol’s Frankestein, 1974) e per gli anni ’80 Venerdì 13: weekend di terrore (Friday the 13th Part III, 1982), Lo squalo III (Jaws 3-D, 1983). Ora di fronte ad Avatar con i fatidici occhialini, trovo lo stesso sgomento di quel lontano 2002 quando scrissi «Mi chiedo con un certo scetticismo se il cinema tridimensionale abbia realmente messo in discussione le categorie estetiche di origine pittorica che prevalgono nella storia del cinema. Sono opportune le analogie e le differenze con i basso e gli altorilievi della vecchia storia dell’arte? M’immagino vecchi film e attori morti, ma soprattutto montagne di aggeggi praticamente nuovi di zecca, mai usati, buttati nella discarica dell’oblio come le marionette pasoliniane di Che cosa sono le nuvole, episodio di Capriccio all’italiana (1968). Lì giace il Cinerama, crudelmente dimenticato dopo qualche anno di successo. E lì vicino il 3D… sembrava promettere bene e invece… indietro Sensurround e Percepto e in un angolo Smell-O-Vision e Odorama. Che tristezza! Un po’ come andare al circo di questi tempi… l’incanto è finito. È come se il cinema avesse gettato la maschera e avesse esibito a noi, che viviamo l’opera d’arte nella sua riproducibilità digitale, le sue umile orgini». Un po’ come la critica nostrana che di fronte al fenomeno Avatar si forma in gruppi pro e conto senza meditare sul nostro cinema, su quali strategia da usare e contrapporre. Anzi che cosa fa il cinema italiano? Nulla. Riproduce la sempiterna commedia all’italiana, ripassata sotto l’illuminazione della fiction televisiva, con attori che non possiedono più la gloria del passato glorioso dei Sordi, Mastroianni, Gassman, Manfredi, Tognazzi…Sembriamo gli indigeni di Avatar che si ostinano a combattere con archi e frecce la potenza militare tecnocratica. Senza accorgerci che il delitto perfetto (il digitale) professato da Baudrillard si è finalmente compiuto. Perché non lascia traccia. Nitrato d’argento, adieu.
`3D, la nascita e lo sviluppo di un nuovo cinema?`
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3D, LA NASCITA E LO SVILUPPO DI UN NUOVO CINEMA?
di Domenico Monetti
Non parlerò di Avatar. Non certo per snobismo. Ma utilizzerò l’opera di Cameron, come mero pretesto per fare un po’ di storia sul 3D e sulle conseguenze di film come Avatar nell’esercizio cinematografico con la conseguenza più diretta (la sparizione della pellicola) e un quesito importante: che alternativa può contrapporre il cinema italiano a livello di mercato – ammesso che il cinema italiano sia in un mercato! – al predominio tecnologico statunitense? Nel lontano 2002 scrissi, sulle pagine di Cinecritica (n.26-27 aprile – settembre 2002) un saggio in merito a una mia gradita visita alla XVI edizione de Il cinema ritrovato. A tal proposito scrivevo che l’attenzione alla tridimensionalità era antropologica alla nascita del cinema stesso sin dagli anni ’20. Ad esempio, negli anni ’30 Louis Lumière realizzava alcune ricerche sulla tecnica del cinema tridimensionale attraverso la creazione di un procedimento di polarizzazione in cui, su una pellicola 35mm, venivano sovrapposte due immagini verticali, rendendo così necessario l’uso di un proiettore modificato. Ma ciò che è interessante è il fatto che Louis Lumière reinventa il cinema per la seconda volta: riproduce infatti le sequenze da lui girate insieme al fratello Auguste alla fine del XIX secolo, e in particolar modo L’arrivée du train en gare de La Ciotat, come se l’apparizione delle immagini in rilievo costituisse una seconda nascita del cinema. Ma il primo vero film a essere girato in 3D fu un mediocre b-movie statunitense, ambientato nella giungla Bwana Devil (1952) di Archie Oboler. Ma perché il 3D ebbe questo straordinario successo negli anni ’50 e tutto avvenne proprio negli Stati Uniti? Le motivazioni erano diverse e molteplici. Il dopoguerra negli Usa vide un tasso di natività e di consumi, tanto che i futuri nascituri saranno ricordati come la generazione dei baby boom. Contestualmente Hollywood viveva un clima di grande repressione, causa la guerra fredda che portò a una grave crisi del pubblico: i 98 milioni di spettatori settimanali del 1946 calarono inesorabilmente ai 47 milioni del 1957, costringendo alla chiusura di circa quattromila sale. A incrementare la crisi fu un lungo processo da parte del Ministero iniziato nel 1938 e terminato nel 1948, ricordato come il caso Paramount: le cinque grandi case cinematografiche (Paramount, Warner Bros, Loew’s-MGM, 20TH Century Fox e RKO) e le tre piccole (Universal, Columbia e United Artists) erano state accusate di violare le leggi antitrust appoggiandosi l’una con l’altra per monopolizzare il mercato cinematografico. Aggiungete anche il fattore della televisione e si avrà un panorama completo della crisi delle sale cinematografiche: nel 1954 possedevano 32 milioni di televisori mentre alla fine del decennio ne era munito il 90% delle case. Come combattere la crisi? I produttori pensarono ad intensificare attraverso il colore (tanto che nei primi anni ’50 la quantità di film a colori a Hollywood aumentò dal 20 al 50%) e il suono. Non solo: si crearono appositamente i drive-in dove lo spettatore non doveva scendere dalla macchina. Assecondando l’ideologia del “più grande più bello” si tentò di allargare anche l’immagine. Ecco allora tre proiettori sincronizzati mostrare il film su uno schermo concavo di 146°, estendendo notevolmente l’immagine. Il più popolare, perché più economico e più facile da utilizzare, fu il Cinemascope. Una lente anamorfica, posizionata all’interno della cinepresa, permetteva di catturare un’inquadratura molto grande per poi comprimerla in una pellicola 35mm. Il procedimento poteva essere invertito: si applicava la lente anamorfica direttamente al proiettore che decomprimeva il fotogramma per restituire un’immagine normale.