A 83 anni Končalovskij
fa i conti con lo stalinismo:
bello “Cari compagni!”
La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor / 7
A 83 anni, dopo un bizzarro film su Michelangelo girato in Italia, il russo Andrej Končalovskij si conferma regista atipico e originale, di sicuro meno allineato e più moderno del fratello minore Nikita Michalkov. La controprova viene da “Cari compagni!”, in concorso qui alla Mostra tra meritati applausi. Il film non dispiacerà a Putin, che pure viene da una lunga esperienza nel Kgb, infatti sui titoli di testa appare la benedizione del ministero russo della Cultura (uno o due fischi in sala); e tuttavia il regista di “Siberiade” recupera una fosca vicenda che meritava comunque di essere sottratta all’oblio di Stato sancito per circa trent’anni dai capoccioni sovietici.
Accadde a Novočerkassk, nella “regione del Don”, il 2 giugno del 1962. Esasperati dai continui rialzi dei prezzi e dalla parallela riduzione dei salari, gli operai di una fabbrica di locomotive diedero vita a una manifestazione popolare contro il governo centrale, “regnante” il segretario Nikita Chruščëv. Kgb e Armata Rossa vennero mobilitati per reprimere la presunta insurrezione, e a un certo punto, su ordine dall’alto, qualcuno cominciò a sparare sugli inermi manifestanti decisi a farsi ascoltare dal Partito: almeno 26 corpi restarono sul terreno, 87 persone rimasero ferite gravemente, altri “nemici del popolo” vennero fucilati nei giorni a seguire dopo sommario processo. Alcuni di quei cadaveri furono sepolti di nascosto in sacchi di plastica, dentro altre tombe, affinché nessuno potesse rivendicarli e piangerli. Tutto fu “secretato” fino al 1992, quando finalmente si aprì un’inchiesta, s’intende tardiva.
Končalovskij adotta un punto di vista singolare, che è quello di Lyudmila, una nostalgica stalinista dalla fede incrollabile. Madre e vedova, la quarantenne non è moralmente inflessibile, ma ostenta un coriaceo disprezzo per ogni forma di dissenso.
Per lei sono tutti “sobillatori” da reprimere e se necessario giustiziare, Chruščëv è troppo morbido. Non sa che di lì a poco da Mosca arriverà l’ordine di sparare sul popolo e lei, nel precipitare tragici degli eventi, dovrà fare i conti con un terribile sospetto: forse anche la figlia è stata uccisa e sepolta da qualche parte.
Formato atipico quasi quadrato, fotografia in bianco e nero, musica ridotta al minimo, massima accuratezza nella ricostruzione storica, con nomi e cognomi veri. A partire dal titolo, “Cari compagni!” usa quella formula retorica per svuotarla di ogni significato, e intanto nella sconcertata Lyudmila sembra incrinarsi ogni certezza, si fa strada la percezione di una gigantesca ignominia. Non di meno, al dirigente del Kgb che l’aiuta nella penosa ricerca dirà di nuovo: “Vorrei che tornasse Stalin”.
Di miti crollati e ideali traditi parla il film, che Končalovskij dedica alla generazione dei suoi genitori. L’attrice protagonista Julia Vysofskaya bene sintetizza l’amalgama di fanatismo ideologico e ottusa fedeltà dei quali si nutrì il regime sovietico prima di cadere in pezzi. La prima parte, scandita dal tambureggiare dei fatti, è più riuscita; nella seconda irrompe il “fattore umano”, e con esso lo spappolamento di ogni illusione, politica e sociale.
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Qualcosa del post Unione Sovietica torna anche nel secondo titolo in gara: il polacco “Non ci sarà mai più la neve”, firmato dalla regista Małgorzata Szumowska insieme allo sceneggiatore e operatore Michał Englert. Film enigmatico, a suo modo estetizzante, lezioso e depistante, ma animato da una strana suggestione (lo distribuirà in Italia I Wonder Pictures). Un atletico massaggiatore cresciuto nei dintorni di Chernobyl, sicché tutti gli chiedono se è radioattivo, gira a piedi col suo lettino portatile e gli oli necessari. I danarosi clienti di Zhenia vivono tutti in un comprensorio esclusivo, fatto di linde villette a schiera un po’ alla maniera di Tim Burton; ma ciascuno di essi custodisce una nevrosi, un desiderio, una’ossessione, un’infelicità. Come un pranoterapeuta dell’anima, l’uomo dell’Est entra nelle vite di queste persone, agendo quasi come uno specchio delle loro fantasie. Ma qual è il segreto di Zhenia? Perché è così dolcemente rassicurante? E quel bosco magico esiste davvero?
Il titolo allude alla “profezia” secondo la quale dopo il 2025 non nevicherà più in Europa, ma consiglio di non prenderlo sul serio. Il meglio del film, nel quale riecheggia forse qualcosa del pasoliniano “Teorema”, sta nel palpito, tra buffo e tragico, evocato dalla regista, nella cognizione del dolore che traspare dal volto impassibile, a volte quasi ebete, del protagonista Alec Utgoff, s’intende molto desiderato dalle donne.
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Tutt’altro clima, ma ancora una donna alla regia, con “One Night in Miami”, tra i fuori concorso (produce Amazon). Regina King adatta per lo schermo l’omonima pièce teatrale di Kemp Powers, facendo prendere un po’ d’aria al testo. Se l’esordio è loffio e non capisci bene dove la storia andrà a parare, presto tutto si precisa. Nel febbraio del 1964, giù a Miami, quattro afroamericani famosi si ritrovano in una stanza di motel. Sono il boxeur ventiduenne Cassius Clay, il campione di football e futuro attore Jim Brown, il cantante soul Sam Cooke e il leader politico Malcolm X. Il giorno prima Clay è diventato campione del mondo, ci sarebbe da festeggiarlo, ma presto la conversazione s’accende e affronta altri temi: l’adesione alla Nazione islamica, l’arte e le canzoni al servizio della politica, il concetto di “black power”, la lotta al potere dei bianchi, l’integrazione possibile, la dignità da difendere… “I Beatles sono una moda passeggera” sentenzia il pugile, sbagliando di grosso; e intanto, tra bevute, scenate e battute, i quattro fanno i conti con la propria condizione di neri che ce l’hanno fatta. Anche se giusto un anno dopo, il 21 febbraio del 1965, Malcolm X verrà ucciso.
Vedi il film, onesto e ben recitato, più interessante che bello, e non puoi fare a meno di pensare alla morte di George Floyd.