L’angolo  di Michele Anselmi

“Le cose capitano, ecco tutto” filosofeggia una battuta del film “I giovani amanti”, francese, scritto e diretto da Carine Tardieu, uscito giovedì scorso col marchio I Wonder Pictures, temo destinato a un rapido passaggio nelle sale estive (nulla sembra incassare, a parte due o tre kolossal hollywoodiani). Trattandosi di una storia d’amore tra un quarantacinquenne e una settantenne, il titolo non va preso alla lettera, o forse sì, nel senso che certe dinamiche sentimentali si ripetono a ogni età, più o meno, e anzi col tempo tutto s’infragilisce o forse recupera i palpiti della gioventù, quando un incontro inatteso genera turbamenti, vergogna, timidezza.
Lui è Pierre, un medico di Lione nel campo dei tumori, sposato con una bella coetanea/collega e padre di due figli adolescenti; lei è Shauna, un’architetta parigina che fu famosa e ora, madre e nonna, sembra aver messo da parte l’idea di potersi di nuovo innamorare. Quindici anni prima si sfiorarono in un ospedale, dove lei accudiva un’amica morente, ma il caso ci mette lo zampino e i due, grazie a un amico comune, si rivedono in una casa di campagna, nel mezzo della brughiera irlandese. Shauna finge di non ricordare, o forse proprio non ricorda; Pierre, con la barba più grigia e i capelli più lunghi, non ha dimenticato quel volto. Scommettiamo che, una volta a Parigi, lei un po’ incuriosita, lui lì per un convegno, i due sceglieranno di rivedersi, tra imbarazzi, trasalimenti e tutto il resto?
Scandito dal suono sobrio di una chitarra classica, ce n’è fin troppa, “I giovani amanti” è un film classico, forse pure un po’ prevedibile, ma intessuto di finezze, attento a restituire i meccanismi di una passione imprevista, destinata a terremotare le vite dei due. Pierre confessa il tradimento alla moglie, se ne va di casa, sprofonda pure in una crisi professionale; Shauna prova a scappare da quel rapporto che le appare impossibile da gestire, incongruo, anche perché strani tremori e inciampi della memoria annunciano qualcosa di serio…
A un certo punto, in sottofinale, si vede una scena di “Un tipo che mi piace” di Claude Lelouch, 1969, con un’Annie Girardot sempre più inquieta che aspetta seduta in un bar l’arrivo di Jean-Paul Belmondo. Qualcosa del genere succede anche qui, quasi a sancire, con la citazione cinefila, una filiazione emotiva, anche un modello di cinema che si rivolge a un pubblico agé, ancora disposto a palpitare di fronte al disagio fisico della donna che non si sente più desiderabile e al trasporto romantico dell’uomo pronto a piantare tutto.
Lei è Fanny Ardant, lui è Melville Poupaud, molto caratterizzati sul piano dei rispettivi ambienti di provenienza (case, abiti, acconciature, fotografie), con un eccesso di pudore nelle scene a letto; mentre la moglie tradita è Cécile de France, un’attrice versatile che non cerca mai la “scena madre”, ma se serve non si tira indietro (qui ce n’è una in sottofinale, niente male).

Michele Anselmi