L’angolo di Michele Anselmi
Si definiva “ribelle e lontana dalla grazia di Dio”. Forse le sarebbe piaciuto sentirsi un po’ Jane Eyre ed essere amata da un signore di Rochester, ma la sua vita reale, anche per indole personale, non fu affatto romantica; quanto al caldo sentimento provato nei confronti di un fascinoso pastore protestante, il reverendo Wadswort, peraltro sposato, restò solo un vagheggiamento platonico.
Emily Dickinson, la poetessa americana nata nel 1830 e morta per una malattia renale nel 1886, è la protagonista di “A Quiet Passion”, il film scritto e diretto dall’inglese Terence Davies che esce nei cinema giovedì 14 giugno col marchio Satine. Non occorre essere votati al culto assoluto della sua poesia per apprezzare questa cine-biografia davvero straordinaria: rigore di stile, ricostruzione d’ambiente, evocazione di una temperie artistica e spirituale si mischiano nella complessa partitura orchestrata dall’anziano regista di “Il lungo giorno finisce”.
Il film è lungo, più di due ore, non si esce quasi mai dalla sontuosa casa di Amherst, in Massachussetts, nella quale Emily visse nel corso dei suoi 56 anni, e tuttavia “A Quiet Passion”, a partire dal titolo che suona come una specie di ossimoro, è un film che non ristagna in quelle stanze illuminate dalle lampade fioche sobriamente arredate, e anzi trova una densa libertà espressiva nel racconto quasi tutto in interni.
Basterebbe, sul piano dell’eleganza espressiva, l’idea di affidare il passaggio del tempo alle progressive, anche impercettibili, trasformazioni sui volti dei personaggi, inquadrati come in posa davanti a un fotografo in studio; ma tutto il film è ricco di invenzioni registiche, di prospettive non convenzionali, dentro una tessitura fatta di dialoghi profondi, motti di spirito e battute argute, versi di poesia recitati fuori campo a guisa di contrappunto.
“Non possiamo essere tutti Milton, ma spremi qualcosa dalla verità e avrai della poesia” teorizza a un certo punto Emily. Furono quasi duemila i suoi componimenti poetici, ma in vita riuscì a pubblicarne neanche una dozzina, perlopiù ritoccati da altri nella punteggiatura, anche addolciti o impreziositi. Lei scriveva perlopiù in rima, una poesia al giorno o quasi, nel silenzio notturno della casa, e non sbaglia il regista nel definirli “versi di rigore e dignità immensi, sommesse e profonde meditazioni sul tema della morte, sulla transitorietà della vita e della bellezza, ma, al tempo stesso, anche una loro celebrazione”.
Ostinata e pungente di carattere, Emily viene seguita sin dalla sua prima giovinezza, quando si fa cacciare dall’ispido collegio religioso nel quale è stata spedita dal padre avvocato e fervente cristiano. Prima incarnata da Emma Bell e poi dalla vibrante Cynthia Nixon, la Miranda di “Sex and the City”, l’aspirante poetessa deve fare i conti con l’asprezza dei genitori e il bigottismo della zia, col legame profondo ma non sempre tranquillo che la lega alla sorella Vinnie e al fratello Austin, soprattutto con una condizione femminile asfissiante e malinconica, anche con la storia che bussa da fuori negli anni della sanguinosa Guerra civile (1861-1865). Ne esce il ritratto, appunto, di una donna vivace e integerrima, fiera e inflessibile, eppure murata viva in una routine che la rassicura, la fa sentire al riparo dagli eventi.
“Il rigore non è un sostituto della felicità” teorizza Emily, vestita di quegli abiti bianchi, virginali, che preservano la sua castità, anche quando potrebbe concedersi, se solo si sentisse attraente, alle attenzione di un paziente e aitante corteggiatore. Intanto muoiono il padre autoritario e la madre sottomessa, il fratello sposato amoreggia spudoratamente con una cantante disinibita, l’amica Vryling, irriverente e seduttiva, finalmente trova marito, mentre la sorella Vinnie cerca di scuotere Emily da quella mortifera auto-reclusione.
“A Quiet Passion”, avrete capito, non è un film facile o rassicurante. Terence Davies sembra quasi parafrasare quel celebre verso di Emily Dickinson – “Amo guardare in faccia l’agonia / perché so ch’è sincera” – nel descrivere, pure con una certa crudezza, la fatica del morire: visi, corpi, capelli, bocche, respiri, ansimi. Luce naturale, movimenti di macchina meditati e primi piani espressivi (la fotografia è di Florian Hoffmeister) fanno del film, di produzione anglo-belga, qualcosa di più di un semplice biopic. Anche per la prova efficace degli interpreti, tra i quali Keith Carradine nel ruolo del padre e Jennifer Ehle in quello della sorella.
Uscendo, s’intende, viene voglia di riprendere in mano le poesie di Emily Dickinson. Che in inglese suonano meglio, non fosse altro perché le traduzioni italiane hanno quasi sempre disperso il senso e la musicalità delle rime originali.
Michele Anselmi