A Single Man| un film di Tom Ford
Uomini elegantissimi e impeccabili, donne perfette nei loro curatissimi maquillage, unità abitative dove l’interior design risulta impeccabile e dove i materiali usati, quali il legno, la pietra, il vetro e con essi l’ambiente esterno, si sposano in un raffinato equilibrio che solo su talune riviste specializzate di arredamento possiamo ammirare … e così via dicendo, il film di Tom Ford passa davanti ai nostri occhi così come passa una sfilata di alta moda, una serie di “modelli” si susseguono di volta in volta di fronte ad un pubblico che a un certo punto, in un momento inevitabile e comprensibile di confusione mentale, crederà di avere sbagliato “location”.
E fin qui nulla sarebbe davvero criticabile, se solo certe sottolineature ed esagerazioni fossero volute, se l’autore, a mano a mano che il racconto si snoda, ci facesse percepire che dietro a tutto ciò si celasse proprio una voluta ironia rispetto ad un’epoca (in questo caso gli anni ’60) e a particolari ambienti. Ma non è così, gli studenti di quegli anni anch’essi così belli, così perfetti, le note musicali di “Stormy Weathers” e “Green Onions” di Booker T. & The MG’s, tutto ci restituisce una realtà nostalgica sulle orme di serie televisive di quegli anni quali “Peyton Place”.
Tratto dal romanzo “Un uomo solo” di Christopher Isherwood, il film racconta la storia di un professore universitario inglese che, ai tempi della “guerra fredda”, perde tragicamente in un incidente stradale il compagno che amava da sedici anni ed incapace di elaborare il lutto subìto, decide di pianificare il proprio suicidio: tutto accade nell’arco di una giornata e solo l’incontro (amoroso?) con un suo studente, gli farà accennare un sorriso.
Ma George, colto da malore inaspettatamente, crollerà morente accanto al suo letto, e così, in una sorta di inizio/fine, di alpha e omega, come all’inizio del film egli sogna di baciare il cadavere del compagno, così alla fine vede Jim chinarsi su di lui e baciarlo: e il cerchio si chiude. Il racconto è tutto focalizzato sul ricordo, sul continuo riaffiorare alla mente dei momenti felici passati con l’amato, dove, banalmente e in maniera scontata, piccoli dettagli e particolari riportano alla mente il già vissuto.
Così come abbastanza banali appaiono i cambi di colore delle immagini in corrispondenza con le emozioni: il ricordo si tinge di grigio condensandosi in una fotografia in bianco e nero, l’incontro con il bel ragazzo spagnolo in un parcheggio viene invaso da un’ondata di toni caldi, e via dicendo … tutto appare perfettamente confezionato, con una precisione, da parte del regista/stilista, a dir poco maniacale.
Se l’essenza del film doveva essere incentrata sul sentimento del “dolore” e del senso di solitudine, diciamo pure che il risultato finale non rispecchia l’intento; il rincorrere affannosamente la perfezione stilistica e formale, la preoccupazione dell’autore di concentrare la sua attenzione sul dettaglio oltre la giusta misura, ne fanno un film ben confezionato, di una bellezza formale assoluta, ma niente di più …
E’ probabile che se Ford si fosse polarizzato su alcune scene simboliche quali quella iniziale del fluttuare nell’acqua del corpo nudo, come metafora dell’essere nel grembo materno, il film avrebbe acquistato uno spessore che, invece, non possiede.
Ecco quindi che questi continui rincorrersi di giochi di luce, così come l’affannoso tentativo di costruire immagini e scene che non rispecchiano mai nessun aspetto della “semplice” realtà, finiscono per rasentare la stucchevolezza e anziché arricchire il racconto al suo interno, creano una pellicola che lo avvolge esteriormente. Senza considerare quando George tenta di sistemarsi sul letto per suicidarsi; ci si sofferma lungamente sulle varie prove e modalità che mette in atto: ora nel coprirsi con una trapunta, quindi dentro un sacco a pelo, o ancora accomodandosi il guanciale in varie posizioni, muovendosi tra grottesco e ridicolo.
E’ giusto spezzare una lancia in favore dell’attore principale del film, Colin Firth, che per la sua interpretazione è stato premiato con la Coppa Volpi e che è riuscito a restituire il distacco e l’estraneità del personaggio rispetto all’ambiente e alla realtà che lo circondano. Certo, basarsi sulla bravura dell’interprete principale per poter dire che si tratta di un buon film (come del resto ultimamente sempre più spesso accade), è un pò pochino …
Ma quelli che vediamo sono attori che interpretano la loro parte o modelli di giacche, tricot e cravatte che sfilano in passerella? E ancora, il maneggiare con cura orologi da polso, gemelli per camicia e cravatte da parte del personaggio principale ci mostrano
una pellicola cinematografica o uno spot pubblicitario? Tom Ford continua, anche dietro ad una macchina da presa, ad indossare le vesti dello stilista; c’è chi non sarà d’accordo con una parte della critica quando afferma che la storia d’amore tra l’affascinante professore e il suo compagno sarebbe potuta essere benissimo una storia eterosessuale … riflessione non proprio oggettiva rispetto a tutta l’ottica della narrazione.
La visione dell’omosessualità che il regista ci restituisce è, nella sua descrizione altamente borghese e costruita esclusivamente su elementi superficiali e di immagine, una visione squallida e vuota, che ci auguriamo abbia poco a che fare con i fatti e il mondo reale.
Senza dubbio siamo ben lontani, nell’affrontare questo tipo di tematiche, da regie quali quella di un Fassbinder e da film come “Querelle de Brest” di un lontano, ahimè, 1982 …
Onorina Collaceto
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