L’angolo di Michele Anselmi
Si può pensarla come si vuole sul tema, ma questo è: Warner Bros, scottata dai pessimi risultati di botteghino riscossi negli Usa, distribuisce “Il cardellino” in esclusiva digitale “per l’acquisto e il noleggio”, rinunciando all’uscita nelle sale. Il tutto da venerdì 6 dicembre, cioè domani, sulle seguenti piattaforme: Apple Tv App, Itunes, Google Play, YouTube, Infinity, Sky Primafila, Chili, Rakunen Tv, TimVision, Playstation Store, Microsoft Film & Tv.
I partigiani del grande schermo grideranno, forse, allo scandalo, ma non è detto che sia un male; possibile, anzi, che il film tratto dal best-seller di Donna Tartt (le valse anche un Pulitzer nel 2014) trovi grazie a quest’altra formula distributiva, per ora sperimentale, una più densa e casalinga “tenitura”.
Intanto, fuori tempo massimo, io vado a procurarmi il romanzo. All’epoca, nonostante i consigli appassionati dell’amico e scrittore Gianfranco Manfredi, mi feci spaventare dalle 900 pagine che compongono “Il cardellino”, il cui titolo in originale suona “The Goldfinch”. Sbagliai, perché, a vedere il film, lungo due ore e mezza, girato dal regista irlandese di “Brooklyn” con ampiezza di mezzi, fotografato magnificamente da Roger Deakins e interpretato da un buon cast di attori nel quale spiccano Ansel Elgort, Nicole Kidman e Jeffrey Wright, si resta intrappolati nel congegno narrativo inventato dalla scrittrice americana.
Ne succedono di tutti i colori in questo affresco americano, e qualcuno ha ironizzato pure sulla catena di disgrazie, in stile “Le ceneri di Angela”, che colpiscono il giovane protagonista, Theo Decker. A tredici anni, mentre visita con la premurosa madre il Metropolitan Museum, scoppia una bomba devastante e lui si salva per miracolo. Coperto di polvere e detriti, ma incolume, su suggerimento del vecchio signore morente che gli stava accanto “ruba” un quadro uscito indenne dall’esplosione, appunto “Il cardellino”, dipinto dall’olandese Carel Fabritius nel 1654, l’anno della sua morte. Il quadro è piccolo, 33.5 centimetri per 22.8, entra agilmente nello zaino; e negli anni diventerà per Theo una sorta di “portafortuna”, un segreto da custodire gelosamente, anche un’ossessione.
Sì perché l’occhialuto ragazzino, accolto dopo la disgrazia dalla facoltosa famiglia Barbour, ha nel frattempo trovato nell’antiquario nero Hobie una specie di mentore affettuoso, che lo avvia ai segreti del restauro; e in quel negozio, pieno di legni, colle, oggetti, cose belle, tornerà ormai ventenne, dopo una devastante esperienza in Nevada col padre scellerato rifattosi vivo, per occuparsi delle vendite. Alto, elegante, compito, brillante, ma dipendente dal Vicodin, che imparò a usare nel deserto insieme all’amichetto russo Boris.
Non ci avete capito niente? In effetti la vicenda è trapunta di svolte, colpi di scena, morti, agnizioni, ritorni, coincidenze, matrimoni, cicatrici, dentro una chiave da “bildungsroman”, insomma da romanzo di formazione. Su tutto splende la bellezza purissima di quel dipinto, sottratto e avventurosamente ritrovato, perché “noi moriamo ma non si distrugge quello che doveva essere immortale…”.
Risuona “It’s All Over Now, Baby Blue” cantata da Mick Jagger, si vede il pianista Glenn Gould all’opera su Beethoven, tornano le massime di Thoreau, per scherzo Edgar Allan Poe viene definito “il Vincent Price della letteratura americana”, insomma si vede che lo sceneggiatore Peter Straughan s’è dato da fare sul versante dei riferimenti colti. Anche se la qualità maggiore del film, nel rincorrersi degli eventi tragici con conseguenti sottolineature melodrammatiche, sta forse nell’enigma esistenziale nel quale si agita il protagonista, insieme vittima e artefice del proprio destino (Oakes Fegley da piccolo, Ansel Elgort da grande). Un po’ simile, nel suo essere delicatamente indecifrabile, allo straordinario cardellino ritratto da Fabritius.
PS. Io l’ho visto in inglese con i sottotitoli, speriamo che sia stato doppiato bene, specie alla “voce” Boris (piccolo e grande).
Michele Anselmi