L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “lettera 43”
Se Maurizio Nichetti, nel lontano 1989, battezzò “Ladri di saponette” una sua commedia di impianto neorealista, Diego Abatantuono ha coniato un altro gioco di parole che allude al capolavoro di Vittorio De Sica per dare un titolo al suo nuovo libro, scritto insieme Giorgio Terruzzi. “Ladri di cotolette” si chiama il volumetto, edito da Mondadori Electa e dall’8 ottobre nelle librerie italiane (il 24 di questo mese, alle 18.30, presentazione con l’autore al multicenter Mondadori di piazza Duomo a Milano).
La cotoletta alla milanese è uno dei piatti preferiti dal comico 58enne, si diletta anche a cucinarla. Infatti il libro nasce come un’antologia di ricette, anche se poi, strada facendo, il racconto palatale ha preso un’altra strada. Così il cibo, di cui l’attore è avido consumatore (all’epoca del film di Marco Risi “Nel Continente Nero” fu ribattezzato per scherzo “L’incontinente nero”), è diventato uno spunto, un pretesto, un filo conduttore: per cucire insieme storie di cinema e ricette incontrate quasi per caso, memorie dai set e piatti poveri arricchiti dalle conversazioni, ritratti di amici e sapori di Paesi lontani.
Dal baule dei ricordi escono, per dire, una mitica cena organizzata da Ugo Tognazzi, una festa mancata alla fine delle riprese di “Mediterraneo”, le esperienze gastronomiche col pantagruelico Paolo Villaggio, il pane e cicoria mangiato con Gérard Depardieu, un altro che non si fa mancare nulla in fatto di cucina e colesterolo; ma anche Diego bambino a spasso per cinema e osterie meneghine col nonno Paolo e il papà Matteo.
DOMANDA. Era proprio necessario un altro libro di memorie dopo l’autobiografia “Eccezzziunale veramente” del 1997?
RISPOSTA. «Magari è un modo per fermare i ricordi. Lo faccio per me e per gli altri. Il cinema non è solo il film che vedi alla fine della lavorazione, seduto in poltrona, sperando che la gente paghi il biglietto. Il cinema è quello che accade prima, durante e dopo ogni ciak».
d. Cinema & cucina: un binomio che funziona sempre, da “La grande abbuffata” in poi…
r. «Insomma, lì si uccidevano mangiando a crepapelle. La verità è questa. Mi avevano chiesto un libro di ricette, ma non mi sembrava che ce ne fosse bisogno. Fatto da me, poi? In questo delirio gastronomico. Così abbiamo pensato a intrecciare racconti dal set e cronache culinarie».
d. Anche Tognazzi compilò un libro di ricette, ricorda?
r. «Certo, ma Ugo era uno chef sopraffino. Ho mangiato spesso a casa sua. Anche bene. Era ambizioso, voleva stupire, ogni tanto esagerava. Alla fine di ogni cena chiedeva i voti. Il più feroce, nel darglieli, era Mario Monicelli».
d. Da “Eccezzziunale… veramente” del 1982 a “Il peggior Natale della mia vita” del 2012, quanti film. E quante mangiate…
r. «Infatti non riesco a dimagrire, anche per colpa dei registi che mi vogliono sempre di questa stazza. In “Ladri di cotolette” ci sono tutti, attori, attrici, registi, tecnici, amici. Gente famosa come Gian Maria Volonté e Paolo Villaggio, ma anche gente da set nota solo a chi fa cinema».
d. Le piacciono le storie d’amore, vero?
r. «Molto, infatti ne racconto tante. Questo mestiere è così bello anche perché offre innumerevoli opportunità. Non può immaginare quante famiglie ho visto finire e cominciare, lavorando a un film. Per non danneggiare nessuno ho evitato di fare nomi e mescolato le carte. Ma chi sa, si riconoscerà».
d. Un incontro bizzarro?
r. «Copacabana, 1996. Stavo girando “Il barbiere di Rio”, con Giovanni Veronesi. La sera, tornando in albergo esausto, sento uno che mi chiama con accento brasiliano. Mi volto, era un vecchio travestitone che mi fa: “Ti ricordi di me al Derby di Milano?”».
d. Ricordava?
r. «Per nulla. Ma lui mi cita episodi, aneddoti, mi parla di Jannacci, di Cochi e Renato, dice che era la “saudage” di Milano. Ora gestiva un “chiringuito”, un chiosco sulla spiaggia, dopo essere tornato in Brasile».
d. Continui.
r. «Stavo per salutare, quando ho sentito un profumino familiare. Era lui, il trans agé, che stava cucinando il riso allo zafferano con l’osso buco, in mezzo a quel caldo. Non potevo resistere, abbiamo cenato insieme, alla fine mi sono fatto dare la sua ricetta».
d. A proposito di pranzi sul set. Sa che Nino Manfredi, per una certa avarizia, fu soprannominato “La forza del cestino”.
r. «Non ci volevo credere, pensavo fosse una leggenda metropolitana. Invece era vero, si faceva dare due cestini e uno lo portava a casa. A me non succede, mi piace mangiare bene, sono di manica larga, anzi di mano bucata. Raramente pranzo col cestino, se posso vado al ristorante».
d. Dopo una vita passata sul set, tra alti e bassi, film belli e film brutti,che cos’è per lei il cinema?
r. «I film che ho fatto, appunto, e i ricordi che ho. Alcuni sono malinconici, altri divertenti. Ne vuole uno divertente?».
d. Certamente.
r. «Un mio vecchio amico stuntman, Pupo Romano, fece la controfigura di Alain Delon in “Zorro”. Resto sempre ammirato ogni volta che l’eroe mascherato si butta da qualche balcone e finisce in sella al cavallo nero, senza beccarsi il pomello tra le palle. Rischioso. Solo che anche i cavalli non amano prendersi 80 chili sul groppone che arrivano dall’alto».
d. E allora cosa faceva il suo amico?
r. «Prendeva la controfigura del cavallo, perché dopo uno o due tentativi la povera bestia si faceva furba e si spostava».
d. Ha appena girato due film, “La gente che sta bene” e “Indovina chi viene a Natale?”, il tv-movie “L’assalto”, firma una rubrica sul “Corriere della Sera”, adesso c’è questo libro di cinema e ricette. Non si ferma mai?
r. «Finché mi chiamano lavoro. Per questo ho tante cose da raccontare. Storielle, amori, dietro le quinte. Ma siccome dopo una giornata sul set viene fame e si va a mangiare, riecco spiegate le ricette».
d. La gente per strada che cosa le chiede?
r. «Vogliono risentire le battute dei miei film, così devo essere pronto a capire di cosa stanno parlando, altrimenti ci rimangano male. Cioè devo essere subito nella parte. Poi c’è la pubblicità. Adesso mi dicono: “so’ Dieco, ti spieco”. Mi chiedono più autografi come orso che come Abatantuono».
d. Addirittura?
r. «Ho avuto la fortuna di diventare famoso a 23 anni. Facevo spot per la Buitoni già negli anni Ottanta. Certo, la pubblicità è meno gestibile dei film, è talmente violenta, una macchina fatta di creativi: tu ci metti del tuo ma c’è molto del loro. Prima di prendermi come voce all’orso hanno fatto dei test».
d. E l’hanno riconosciuta?
r. «Sì, il 99 per cento dei ragazzi. Molti di loro erano pure convinti che fossi io a pattinare dentro la pelle».
d. Lei è un uomo fortunato, ma come vede quest’Italia incattivita e impoverita, rinchiusa in se stessa, umiliata e offesa?
r. «Non è un bel momento, concordo. Ma non mi va di buttarla in politica, e non mi piace neanche suggerire che prima si stava meglio. Anche se credo di sì».
d. L’ha colpita il suicidio di Carlo Lizzani?
r. «Molto. Lui aveva 91 anni, ma già alla mia età vengono a volte dei pensieracci. La malattia invalidante, il disagio di vivere, il lavoro che non c’è più. Non credo che siamo solo noi gente del cinema a buttarsi dalla finestra. In questi casi penso sempre a quel bel film canadese, “Le invasioni barbariche”. Ricorda?».
d. Per tornare al suo libro appena uscito: la sua ricetta preferita?
r. «La voglia di stare insieme a tavola. Un piatto meraviglioso mangiato da solo non vale una cotoletta media, mi creda».
Michele Anselmi