“Tutti i bambini hanno diritto a un’educazione. Questa dovrebbe essere gestita dalla famiglia e se la famiglia è carente allora la società ha il dovere di intervenire”. Con questa epigrafe si apre la scena sull’infanzia di Malony, in tenera età abbandonato da sua madre nella stanza di un giudice minorile. Malony cresce, ma la sua vita non cambia. La madre non si interessa di lui e l’ormai adolescente non fa altro che mettersi nei guai. Vani sembrano i continui tentativi da parte del giudice e dell’assistente sociale che lo seguono di portarlo sulla retta via. Qualcosa lo tormenta rendendolo irrequieto, diffidente, scontroso, cieco di fronte alle tante opportunità che gli vengono offerte per evitare il carcere. Fa rabbia Malony, ma anche tanta tristezza.
Intenso è il primo aggettivo che viene in mente guardando A testa alta, film scritto e diretto da Emmanuelle Bercot e presentato in apertura al Festival di Cannes. Non per la storia che, visti i temi trattati, richiama alla sensibilità di ciascuno di noi, ma per l’interpretazione e il pathos posto dietro ogni personaggio. Sembra quasi di non essere di fronte a un film, ma di fronte a un documentario con personaggi che non interpretano un ruolo, ma la loro stessa vita. Il fulcro della storia, infatti, non è altro che il disagio giovanile, argomento comune a molti altri titoli. Il messaggio potrebbe essere uno fra i tanti, l’educazione come diritto fondamentale per costruire la propria autonomia e trovare un posto nel mondo. Spesso però non conta quello che si dice, ma come lo si dice. E qui un ruolo fondamentale lo fanno la sceneggiatura, i dialoghi e l’interpretazione. La regia non brilla, infatti, di luce propria, ma piuttosto di luce riflessa.
Nel complesso non si può certo parlare di un brutto film, ma manca la collocazione temporale, passano giorni o forse sono mesi poi di nuovo giorni, qualche dettaglio in più a questo proposito avrebbe potuto aiutare a contestualizzare. Ad un tratto poi diventa ripetitivo, cambiano gli eventi ma gli epiloghi sono sempre gli stessi, sembra quasi non si trovi il modo per chiudere finché non si ricorre a un escamotage, non troppo credibile, ma comunque risolutivo. Il protagonista sembra cambiare sì, ma non grazie alle istituzioni, benché si siano impegnate al massimo perché questo avvenisse; peraltro presumere un così ampio spreco di energie in Italia non è verosimile. Forse in Francia, dov’è ambientato il film, le cose funzionano meglio in materia di giustizia minorile, ma rapportandolo al contesto italiano, “surreale” è la prima cosa a cui viene da pensare. L’uscita del film non a caso è prevista per oggi 19 novembre, giorno precedente alla Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che si terrà domani.
Sembra che il messaggio per le istituzioni francesi sia “potete fare qualsiasi cosa, tanto non sarete voi a rendere questo mondo migliore”. Ma se le uniche a poter salvare un ragazzo senza punti di riferimento sono proprio le istituzioni, non sarebbe stato più giusto trasmettere un messaggio di speranza oltreché di denuncia?
Stefania Scianni