La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 12

Coincidenza curiosa: se nel film tratto da “Ilusions perdues” di Balzac il giovane Lucien, tipografo e aspirante poeta, parte da Angoulême per conquistare Parigi, in “L’événement” la coetanea Annie, studente di letteratura, lì frequenta l’università e vorrebbe restare per laurearsi. Ma siamo nella Francia del 1963, l’aborto è reato, si può finire in carcere se beccate, e per quella 23enne, scopertasi incinta, comincia un calvario prima raccontato da Annie Ernaux in un romanzo autobiografico del 2000 (in Italia edito da L’orma col titolo “L’evento”) e adesso dal film di Audrey Diwan in concorso al Lido.

Non è una passeggiata, come del resto non lo era “Quattro mesi, tre settimane, due giorni” del rumeno Christian Mungiu, al quale “L’événement” può essere accostato, pure nella crudezza di alcuni dettagli. Uscirà da noi con Europictures, ed è una buona notizia, perché il film, severo e senza fronzoli, fatto di gesti e osservazione, a tratti durissimo, quasi insostenibile, è di quelli che meritano d’essere visti. Più dagli uomini che dalle donne.

Al prof che le chiede perché abbia perso tante lezioni, Annie risponde di essere stata malata: “La malattia che prende solo le donne e le trasforma in casalinghe”. Lei non vuole quel destino patito da sua madre. Tosta, bella e indipendente, Annie sa che la gravidanza indesiderata può rovinarle la vita; ma nella Francia dei primi anni Sessanta un aborto non spontaneo è qualcosa di indicibile, appunto “un crimine”. E intanto, mentre le amiche la mollano e la solitudine si fa pesante, la sventurata cerca un aiuto che non arriva. Alla dodicesima settimana, dopo aver svenduto libri e gioielli per racimolare i 400 franchi necessari al “raschiamento” clandestino, “l’evento” accadrà, e sarà tutt’altro che lieto, in ogni senso.

Anamaria Vertolomei è la giovane attrice che incarna Annie: davvero brava, intensa e audace, anche per come si mette al servizio delle scene più realistiche, ma necessarie: perché milioni di donne, prima che le leggi nazionali sancissero quel diritto individuale, hanno dovuto sopportare dolori micidiali, anche menomazioni permanenti.

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Vincitore del Leone d’oro nel 2015 col film d’esordio “Desde allá”, il messicano Lorenzo Vigas è tornato in gara col nuovo “La caja”. Magari è solo una coincidenza che l’abbia prodotto il conterraneo Michel Franco, l’altro giorno qui al Lido con “Sundown”, o forse no. Di sicuro i due cineasti sono alquanto pessimisti sulla situazione in Messico, specie sul fronte di una violenza efferata, e diffusa, ormai vissuta come “normale”, quasi consustanziale allo spirito profondo di quel Paese.

C’è un adolescente, Hatzin Levya, che viaggia da solo alla volta di una località del nord messicano: deve ritirare una scatola di zinco con i resti del padre Esteban, recuperati in una fossa comune. Sbrigata la triste incombenza, il ragazzino riparte per Città del Messico, dove vive con la nonna,ma per strada vede un uomo, corpulento e barbuto, tale e quale al padre scomparso. Che sia lui benché si faccia chiamare Mario Enderle?

Sul filo di una ragionata ambiguità, “La caja” racconta la strana vicinanza che nasce tra i due. Hatsin ha bisogno di credere ad ogni costo che quell’uomo sia il padre naturale; l’altro, alle prese con biechi commerci illegali, sembra aderire al gioco, portando il ragazzo in famiglia. Ma qualcosa di atroce sta per succedere.

Famiglie smembrate, bisogno di paternità reale e simbolico, polizia inetta, madri devastate, sfruttamento in fabbrica, corpi da sotterrare in mezzo al deserto: “La caja” dipinge uno scenario fetido e crudele, e lo fa a luce naturale, con piglio quasi documentaristico, senza particolari guizzi e qualche tediosità. Hatzin Navarrete e Hernám Mendoza incarnano il piccolo e l’omone, anche bene, e tuttavia qualcosa non torna nel racconto della vicenda, dalla chiusura “aperta”. Insomma: bisogna molto crederci.

Michele Anselmi