A vent’anni esatti dal suo ultimo film, “Unfaithful – L’amore infedele”, che si ispirava al celebre “Stéphane, una moglie infedele” di Claude Chabrol, Adrian Lyne torna dietro la cinepresa e ci incanta con un noir per i tempi decisamente inedito, colmo di tensioni erotiche e non, infine coraggioso se si considera come ne esce a pezzi la figura della protagonista femminile. Nel film con Diane Lane e Richard Gere si abbondava coi sentimentalismi e l’eros tipico dei film anni ’90, anche se prodotto all’inizio degli anni Zero, e nel finale si sospendeva tutto, senza rimanere a giudicare eccessivamente i protagonisti e le loro azioni criminali. In “Acque profonde” il regista inglese impara bene la lezione dalla sua carriera non troppo prolifica, ma notevole, e dal cinema odierno, riuscendo a confezionare una storia di altre infedeltà e crimini ad esse legati, ma con occhio più sfuggente, gelido, distaccato, e quindi in un certo qual senso beffardo e giudicante.

La cinepresa di Lyne, dunque lo spettatore, si immedesima immediatamente in Ben Affleck, nel ruolo di questo padre di famiglia che è ricco, ma andato in pensione anticipata, che non può che restare a casa ed essere ligio alla sobrietà e all’educare la figlia piccola ma arguta, mentre la moglie Melinda (Ana De Armas), molto più giovane di lui, in sostanza scorrazza per New Orleans da un flirt all’altro sotto il naso di tutti e del marito, guidata dai propri impulsi come l’adolescente sconsiderata di “Lolita”. Il loro è un rapporto fedifrago talmente cristallino che il tradimento non è neanche più un segreto di Pulcinella, lo sanno tutti e persino Vic scherza sul fatto che si dice abbia ucciso uno degli amanti di Melinda. Quindi cosa porterà i due sull’orlo definitivo della crisi? Un tradimento di troppo o forse la nauseante routine, la comunità di amici festaioli, ma impiccioni, tra i quali uno sceneggiatore di film noir che li osserva sospettoso, il SUV, le spese ridicole, il disprezzo reciproco? Il gioco che qui ha luogo è un gioco di coppia al massacro all’ennesima potenza: Affleck è assolutamente furente, ma granitico, un padre di famiglia solido, una montagna silenziosa pronta a franare e sfociare nel delirio e nell’onnipotenza; Ana De Armas, bellissima, la fa annusare in ogni istante, ma senza quasi mai concedere un centimetro del proprio corpo alla cinepresa.

Eppure trasuda eros da ogni suo primo piano, perché il suo volto è un po’ lo stesso della Swain in “Lolita”, giovane, innocente, eppure «demonietto» e infingardo, come si sottolinea perfettamente in una delle primissime scene in cui, rigorosamente scalza, indossa un abito a fiorellini, mentre accoglie in fondo alle scale il marito tutto sudato e in pantaloncini dalla sua corsa in bici, mentendogli. La coppia di questo film è un gomitolo inestricabile di tensioni, composta da attori che si stavano per frequentare ai tempi del film e che ora che è finito e uscito, come fu destino per il duo Kidman-Cruise nel kubrickiano “Eyes Wide Shut” (con cui questo titolo condivide diversi leitmotiv), è stata insieme, ma è già scoppiata. Ben Affleck, in ognuno dei suoi ultimi ruoli, porta con sé l’afflizione melanconica dell’attore depresso, ex alcolista, e quindi riesce a tratteggiare accoratamente il suo personaggio. La sceneggiatura di Zach Helm e Sam Levinson, seppur con le doverose libertà e digressioni, è pressoché fedele al romanzo omonimo di Patricia Highsmith. Lyne su di essa, col montatore in smart-working, costruisce un film di due ore perfetto in quasi tutto. Sarebbe potuto essere, anche in virtù dei nomi presenti (compresi Jacob Elordi e Finn Wittrock, super-divi del momento), un maggior successo con un’uscita anche nelle sale cinematografiche. Dal 18 marzo è visionabile in streaming su Prime video, ed è anche co-prodotto da Amazon Studios.

Furio Spinosi