Sembra proprio che il filone dello sci-fi stia attraversando un periodo di fortunata rinascita. Basti pensare a titoli come “Gravity”, blockbuster d’autore firmato nel 2013 da Alfonso Cuarón, o alla geniale intuizione di Nolan con il meraviglioso “Interstellar”; sino ad approdare al più recente “The Martian”, opera impeccabile che ha potuto contare sulla regia di un veterano del settore come Ridley Scott. Ora ci prova anche James Gray, regista e co-sceneggiatore insieme a Ethan Gross, di “Ad Astra”, thriller fantascientifico in concorso alla 76ma Mostra di Venezia e nelle sale dal 26 settembre.
Ci troviamo in un futuro più o meno prossimo, epoca di “speranze e conflitti”, come ci informano i titoli di testa: l’astronauta/Maggiore Roy McBride (un 55enne Brad Pitt in stato di grazia) è a capo di una squadra che tenta di localizzare forme di vita aliena. Un improvviso sbalzo di corrente mentre lavora sulla International Space Antenna gli è quasi fatale, e ben presto Roy apprende l’origine di queste tempeste elettriche: sono con ogni probabilità collegate al Progetto Lima, vecchia missione della NASA impegnata a scoprire segni di vita intelligente nei pressi di Nettuno. Capeggiata dal padre di Roy, l’eroe e leggenda Clifford, la nave del progetto interruppe ogni contatto con la Terra 16 anni dopo il lancio e l’intero equipaggio venne dato per morto. Ora, il governo degli Stati Uniti comunica a Roy che il padre potrebbe essere vivo, invitandolo ad intraprendere un viaggio ai confini del sistema solare per porre fine all’ondata di raggi cosmici che stanno mettendo in pericolo il nostro pianeta.
Con “Ad astra” (letteralmente “Verso le stelle”), le intenzioni di Gray sono a dir poco ambiziose: il cineasta newyorkese ha infatti dichiarato di essersi ispirato a giganti del passato quali “Apocalypse Now” e “2001: Odissea nello spazio”. Le letture sul premio Nobel Enrico Fermi e la passione per i romanzi di Conrad e Melville (rispettivamente, “Cuore di tenebra” e “Moby Dick”) hanno, a suo dire, fatto il resto. Inutile dire che Kubrick è solo una lontano eco nell’opera di Gray, il quale non riesce a ricreare quella enigmaticità che aveva reso l’“Odissea” il capolavoro che tutti conosciamo. Le domande sul destino dell’umanità e sulla presenza di forme di vita aliena nell’universo, volutamente prive di risposta in Kubrick, trovano una sostanziale soluzione nella storia di Gray.
Se ciò tende a cancellare dal film ogni forma di mistero, è pur vero che qui il regista è mosso da intenti completamente diversi. Da un lato, Gray ci mostra la sua visione lucida, bilanciata, ma a tratti impietosa di ciò che il progresso ed una eventuale colonizzazione dei pianeti potrebbero significare: la Luna è ridotta ad un grande centro commerciale, completa di gadget e possibilità di foto-ricordo con pupazzi alieni. Anche qui si litiga per le risorse e, tra un avamposto e l’altro, si intravedono lande desolate prive di leggi. Come a voler far intendere che il futuro, a detta dello stesso regista, “è colmo sia di promesse che di problemi”.
Ma Gray vuole anche e soprattutto esplorare l’uomo, la sua solitudine, la sua incapacità di tessere rapporti interpersonali e di “concedersi” all’altro. Ed è qui che entra il gioco il difficile ruolo interpretato dall’ottimo Pitt. Roy è un uomo emotivamente represso, quasi robotico nella sua assenza di espressioni, nei suoi silenzi. È un individuo solo (la moglie Eve lo ha lasciato), ma anche solitario, che ha rinunciato agli affetti terreni per dedicare la propria vita alla ricerca nello spazio, unico (non)luogo in cui si sente a suo agio. Suo alter-ego è il padre Clifford, figura idolatrata ma “schiacciante” per Roy, simbolo e vittima di un’ossessione che lo ha portato a perdere se stesso e la propria umanità. Tommy Lee Jones, pur comparendo poco sullo schermo, è meraviglioso ed oscuro al punto giusto nel rendere un individuo al limite della follia.
C’è da dire che il tema “umano” toccato da Gray non brilla certo per originalità, ed alcuni dialoghi tendono ad una semplicità che a tratti scade nel banale. Peccato anche per alcuni personaggi, come quello dell’astronauta Helen Lantos (Ruth Negga) o del vecchio Colonnello Pruitt (uno stanco, ma sempre bravo Donald Sutherland), che avrebbero potuto essere studiati più a fondo. Insomma, le crepe qua e là ci sono, e si vedono. Detto ciò, “Ad Astra” propone interessanti spunti di riflessione, e questo suo lato intimista è sapientemente affiancato da scene adrenaliniche che rispettano la tradizione dello sci-fi thriller (si veda il “volo” inziale di Pitt o la sequenza del soccorso nello spazio). Strabiliante la fotografia di Hoyte Van Hoytema (lo stesso di “Interstellar”, per intenderci) ed il montaggio di John Axelrad e Lee Haugen. Il tutto condito da una colonna sonora minimale, quasi angosciante, firmata da Max Richter. Da vedere.
Ilaria Tabet