L’angolo di Michele Anselmi
«Vorrei dire ai cattolici di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani». Non l’avesse mai fatto. Quando uscì, nel 2011, il suo film “Il villaggio di cartone”, non tra i più riusciti, Ermanno Olmi fu bersagliato dai quotidiani di centrodestra, pure definito «a un passo dall’eresia». In particolare Paolo Granzotto, proprio sul “Giornale”, scrisse un corsivo di fuoco, dove si poteva leggere: «Con quel suo perennemente inalberato sorriso melenso, trasudante buonismo, Olmi è un campione – un Maestro si potrebbe dire – del “chiagne e fotti”, dell’ipocrisia intellettuale, del conformismo politicamente corretto, del moralismo svenevole ravvivato al seltz dell’impegno morale».
Accidenti! Tutto perché, poche settimane prima alla Mostra di Venezia, il regista aveva sostenuto: «Di fronte a un Cristo di cartone tutti si genuflettono. Ed è solo un simulacro. Inginocchiamoci, invece, di fronte a chi soffre, ai ragazzi devastati dalla droga, a questi migranti che arrivano a noi dopo infinite sofferenze. È l’unico modo per lodare Dio».
Ermanno Olmi è morto in ospedale, dalle parti della “sua” Asiago, dopo una lunga malattia affrontata con stoica dignità. Aveva 86 anni, essendo nato a Bergamo il 24 luglio 1931. Di lui ha scritto il critico e amico Maurizio Porro: «Tra il cinema e la vita, Olmi ha sempre privilegiato la vita. Perché, illuminata in angoli riposti e in pieghe nascoste, fu la vera protagonista del suo cinema, il modello che gli permise di non accettare mai il gioco commerciale del divismo, barricandosi dietro alla verità della sua cultura contadina cattolica, del ragazzo self made che non aveva finito il liceo».
Difatti amava definirsi un “ragazzo della Bovisa”, dal colorito quartiere di Milano dove era approdato in gioventù, e così intitolò un suo libro autobiografico edito nel lontano 1986. Arrivò al cinema un po’ per caso, facendo il fattorino alla Edisonvolta, e proprio lì i suoi capi, nell’affidargli una costosa cinepresa a 16mm, si accorsero che quel bergamasco gentile e alacre avrebbe potuto documentare con un certo talento l’attività della società.
La sua cinematografia non conta tanti titoli, solo 23 se non vado errato, a inserire anche i quattro film per la tv e l’episodio del collettivo “Tickets”, ma certo Olmi ha lasciato un segno indelebile, per la sua capacità di raccontare la vita normale di gente normale, con uno sguardo attento alle facce prese dalla vita, alle dinamiche familiari, al piccolo eroismo del quotidiano. Da “Il posto” a “I fidanzati”, da “Un certo giorno” a “La circostanza”, fino alla consacrazione internazionale con “L’albero degli zoccoli”, Palma d’oro a Cannes 1978, girato nella sua terra d’origine, in dialetto bergamasco sottotitolato, costruito sulle vite di quattro famiglie contadine sul finire dell’Ottocento.
Cattolico fervente ma non allineato, Olmi è stato talvolta sfotticchiato per alcuni film considerati vagamente agiografici come “E venne un uomo” sulla figura di Giovanni XXIII e “Alcide De Gasperi”, ma forse rivisti oggi, al pari di “Camminacammina” sui Re Magi, potremmo avere qualche sorpresa. O forse no. In ogni caso, più che “La leggenda del santo bevitore”, Leone d’oro a Venezia 1988, “Cantando dietro i paraventi” o “Centochiodi”, trovo che tra i film della sua maturità siano più interessanti, per varietà di temi e stili, per sguardo poetico sull’esistenza, anche la più drammatica devastata dalla guerra, “Lunga vita alla signora!”, “Il mestiere delle armi”, soprattutto “Torneranno i prati”, che girò, già malato, nel 2014.
Oratore soave e all’occorrenza tenace, gran affabulatore, Olmi non disdegnava gli apologhi un po’ oracolari, e tuttavia sapeva guardare al succo delle cose, anche dei problemi, restando profondamente legato alla cultura contadina dalla quale proveniva (diceva ancora “canterano” per indicare un comò o un cassettone).
La sinistra non l’ha mai amato granché, non sentendolo davvero dei suoi. E anche la destra, come si ricordava all’inizio, poco apprezzava questo “strano cristiano” che cercava, con l’età, il senso di una religiosità ridotta all’osso, svuotata anche di simboli, crocifissi, arredi sacri. Non a caso disse di Silvio Berlusconi all’epoca del “Villaggio di cartone”: «Ho una grande pietas umana per lui. Se si aprissero le porte di quella chiesa ideale che ho rappresentato nel mio film, seppure con tutte le arrabbiature che mi ha fatto prendere, gli direi: vieni Silvio, siediti accanto a me, e trova anche tu un po’ di pace con te stesso». Bello, no?
Michele Anselmi