L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX” e rivisto per Cinemonitor
«Magna er polipetto, Ansé, magna…». Ansé è il sottoscritto, e scusate per una volta il riferimento autobiografico. Correva l’anno 1984, Alberto Sordi aveva appena finito di girare “Tutti dentro”, dove incarnava un giudice pre-Tangentopoli, con buffi capelli lunghi alla De Michelis. Si divertiva, lui così intimamente democristiano e conservatore, a parlare dei suoi film con “l’Unità”. Gli stava simpatico Berlinguer, mentre detestava gli estremisti di sinistra: per lui erano tutti «autonomia operaia», gente pericolosa. Così, per l’intervista, mi diede appuntamento alle 23 in un lussuoso ristorante all’Aventino, “l’Apuleius”. «Mi raccomando, venga già mangiato» avvertì al telefono, confermando una certa nomea di taccagno, più tardi smentita da donazioni filantropiche e gesti di generosità. Andai «già mangiato», era luglio inoltrato, solo che la cena nel frattempo s’era trasformata in una tavolata pagata dalla Kodak. Sollevato, Sordi mi fece sedere vicino a lui, chiamò un cameriere perché apparecchiasse per me e ordinò un antipasto di pesce. Quando arrivò, esattamente come in uno dei suoi film, prese la forchetta, infilzò un pezzo di saporito polpo e me lo ficcò in bocca, nello stupore dei presenti.
Diciamo la verità: chiunque l’abbia conosciuto, per lavoro o per amicizia, custodisce un ricordo personale di Albertone. Quasi sempre positivo, allegro, buffo. L’attore romano morì il 24 febbraio del 2003, dieci anni fa, ucciso lentamente da un tumore combattuto con dignità, senza che nessuno sapesse nulla. Ma con le votazioni di mezzo, l’assessore regionale uscente, Fabiana Santini, di centrodestra, ha voluto celebrare la ricorrenza con qualche giorno di anticipo. Lo scorso martedì, al cinema Adriano, doppia proiezione gratuita, spalmata su varie sale a causa dell’enorme afflusso di pubblico, per “Alberto il Grande”, il documentario-omaggio firmato da Carlo e Luca Verdone. Un ricordo affettuoso ma non zuccheroso, costato in tutto 150 mila euro, destinato ad essere mostrato nelle scuole o nei festival, magari anche in tv prossimamente, senza scopi di lucro.
«È una carezza che abbiamo voluto fare ad Alberto. Noi lo conoscevamo bene» scandisce Carlo con una punta di commozione. I due girarono insieme due film: “In viaggio con papà” diretto da Sordi e “Troppo forte” diretto da Verdone. Ci fu qualche incomprensione sul set, specie la seconda volta, ma il tempo rimise le cose a posto, se possibile rafforzando il rapporto. «Un attore assolutamente rivoluzionario all’inizio della sua carriera, capace di scardinare le regole dell’Accademia d’arte drammatica, creando stupore e sbalordimento sia nel pubblico sia nella critica» aggiunge infatti Carlo. Mentre Luca, il fratello, spiega: «Sordi è stato una maschera ineguagliabile, che conteneva tutte le fragilità, le miserie, i tic e i difetti dell’italiano medio. Non una maschera regionale, ma universale».
Dura poco meno di 80 minuti “Alberto il Grande, forse troppo poco. Ci sono gli estratti dai film, gli aneddoti su piatti unici della domenica, donne e fissazioni, le testimonianze illustri, da Ettore Scola a Franca Valeri, da Emi e Christian De Sica ai fratelli Vanzina e Gigi Proietti, da Goffredo Fofi a Gian Luigi Rondi; ma soprattutto c’è una sorta di pellegrinaggio, malinconico senza risultare mesto, nella storica villa all’inizio dell’Appia comprata nel 1958 da Sordi per 80 milioni di lire. Durante il ventennio vi aveva abitato il gerarca Dino Grandi, e per un po’ fece gola anche a Vittorio De Sica: ma un debito di gioco lo privò di liquidità, lasciando mano libera all’amico Sordi, lesto a chiudere l’affare. All’epoca girava anche 10-15 film all’anno, era sulla cresta dell’onda, i soldi non gli mancavano.
«Tutto è iniziato a Trastevere, in via San Cosimato 9, dove Alberto Sordi nacque nel 1920» ricorda Verdone nell’incipit del documentario. Ma è la dimora di via Druso, dove ancora oggi vive la sorella novantacinquenne Aurelia, simile all’attore come una goccia d’acqua, insieme al fedele autista peruviano Arturo Artadi, in questi giorni al centro di infamanti sospetti riguardanti una presunta truffa bancaria ai danni della padrona di casa ed erede unica dell’ingente fortuna, all’anziana governante Pierina Parenti e qualche altro domestico, a diventare progressivamente la vera protagonista del racconto. «È rimasto tutto uguale, senti ancora la sua presenza tra queste mura» confessa Verdone nell’inoltrarsi in punta di piedi nelle stanze della villa, dove fu ammesso per la prima volta nel 1982, proprio per preparare “In viaggio con papà”.
Le case dicono molto degli uomini, specie se gente dello spettacolo. Vedere per credere “Graceland” a Memphis, dove visse e morì Elvis Presley, oggi meta di giri turistici. Sordi, all’apice del successo, si trasferì lì lasciando l’appartamento in centro dietro via delle Zoccolette, dalle cui finestre appariva ogni tanto al piccolo Verdone, cresciuto proprio di fronte. Strano il destino della villa, dove il tempo sembra essersi fermato. La telecamera restituisce arredi, oggetti, quadri di gusto settecentesco (ma c’è anche un De Chirico), una sala da barbiere in stile camerino, la sobria stanza da letto, il guardaroba ricolmo di giacche e cappotti, lo studio dove Sordi leggeva i copioni e ogni tanto li sbatteva per terra, il roseto curato, la piscina oggi svuotata, il teatro-cinema con tanto di buca per il suggeritore. In tanti frequentarono quei luoghi: cardinali, sindaci, potenti, artisti come Monica Vitti, Franca Valeri, Sergio Amidei, Rodolfo Sonego, Federico Fellini, Giulietta Masina, Piero Piccioni, anche Jack Lemmon e Walter Matthau. Poi nel 1972, con la morte di Savina, la sorella maggiore, tutto cambiò: niente più feste e cene, la villa diventò una sorta di roccaforte inespugnabile.
«Un po’ era folle, un po’ imprevedibile, anche con se stesso. Alberto guardava il mondo con gli occhi non dell’irrisione ma della caricatura» scandisce l’amico Scola nel ricordare l’esperienza in Africa ai tempi di “Riusciranno i nostri eroi…”: prima diffidente verso il cibo e le usanze del posto, poi pronto a mangiare con le mani il “tabulé” circondato da ragazzini neri. Magari non era così cinico come lo vedeva Nanni Moretti. E neanche così di destra: però restò basito quando Marcello Veneziani l’attaccò sulla storia dell’italiano medio.
Il film si chiude con le luci del teatro casalingo che si spengono ad una ad una, un po’ malinconicamente. Quasi a smentire l’irriverente verso del Belli che Sordi disse così bene nel “Marchese del Grillo”. Ricordate? «Io so io e voi non siete un cazzo».
Michele Anselmi