La premessa di questo sequel di Alice in Wonderland è che non poteva essere in alcun modo una trasposizione dell’impossibile “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò” di Carroll, ancora meno narrativo del primo romanzo e difficile da tradurre sia in italiano sia per il linguaggio del cinema. La Disney, così, decide di affidare il lavoro unicamente alla sceneggiatrice Woolverton, reduce dal primo capitolo, ma soprattutto dai successi straordinari di Il re leone, La bella e la bestia e il recente Maleficent. Il risultato è di presentare al pubblico qualcosa di Alice che supera decisamente le aspettative, dopo un primo capitolo non proprio brillante (soprattutto nella carriera di Burton, che qui non dirige più, ma rimane dietro le quinte come produttore).
Dopo un viaggio sulla nave del padre, alla probabile conquista di qualche terra da colonizzare in Asia, Alice fa ritorno nella noiosa Inghilterra, dove trova una madre caduta in disgrazia e costretta dall’ex pretendente della figlia a vendere i propri beni per sopravvivere. Non disposta a fare i conti con questa realtà e a nuove responsabilità, Alice fugge attraverso lo specchio (uno dei pochi elementi originari del libro) e torna a Sottomondo, dove trova un’altrettanto desolante realtà. Il suo amico Tarrant Altocilindro, cappellaio matto depresso e recluso fra le mura di casa, si teme possa fare una bruttissima fine e così Alice decide di scoprire il suo passato e quello di Sottomondo grazie ad un dispositivo sferico, la Cronosfera, che permette di navigare gli oceani del tempo. Il viaggio nel tempo è stato visto al cinema mille volte, ma qui diventa estremamente ricco e stratificato sotto le logiche tecniche e spettacolari, che contraddistinguono gli ultimi film live-action della Disney, in particolare Il Libro della Giungla.
Come dicevamo, il nonsense, anche se notevolmente ridotto, non manca di certo. Una scena ci presenta i due più grandi attori del cast di Alice attraverso lo Specchio, Johnny Depp e Sacha Baron Cohen, in un colloquio al tavolo da tè completamente senza senso, e anche piuttosto lungo, dove i tempi comici sono sostenuti brillantemente. Non mancano dunque i momenti di sperimentazione. Tutto però è il più delle volte a servizio della spettacolarizzazione di ogni singolo evento, che non è per forza sempre un male. Le scenografie sono firmate da Hennah, addetto ai lavori della saga di Lo Hobbit, e l’impegno messo in gioco si vede tutto. Alice e il Cappellaio matto, come la Regina Rossa e Bianca, sono due facce della stessa medaglia al di là di questo specchio deformante dell’universo disfunzionale che è la Famiglia. Questo concetto diventa il grande cardine del film che riesce a renderlo anche più concreto e naturale: andando a pescare nel passato familiare dei personaggi, infatti, si comprendono finalmente i livori fra i personaggi. Il nonsense quindi va ad affievolirsi, per lasciare il passo alla morale disneyana, ma lo fa senza recare fastidio. Infatti Alice attraverso lo specchio dura due ore, ma scorre come un film Disney dalla canonica durata di un’ora e mezza e, pur prendendosi il difficilissimo compito di tradire la sua ispirazione letteraria, mantiene l’intento di narrare un percorso di formazione e crescita (che qui è di tutti, Alice e company) con il beneficio dell’intrattenimento di un pubblico più ampio possibile, ma senza rinunciare alla qualità.
Furio Spinosi