È in libreria “Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane”, la nuova miscellanea di saggi curata da Fabio Camilletti e Fabrizio Foni ad un anno dal fortunato “Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano”. Nel nuovo volume sull’inquietudine di casa nello Stivale, i contributi sono firmati da Tony Binarelli, Maso Bisi, Davide Bosco, Moreno Burattini, Tommaso Braccini, Fabio Camilletti, Ivan Cenzi, Luigi Cozzi, Antonello Cresti, Stefano Curreli, Bruna Dal Lago, Paolo Di Orazio, Fabrizio Foni, Irene Incarico, Howard David Ingham, Stefano Marzorati, Claudia Padalino, Felice Pozzo, Alessandro Scarsella, Francesco Scimemi, Massimo Soumaré, Antonio Tentori, Eduardo Vitolo. Come per il primo tomo, abbiamo incontrato i due curatori.
“Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane” fa il paio con il precedente “Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano” a partire dall’utilizzo del sostantivo “almanacco”. Qual è il rapporto tra i due volumi?
Fabrizio Foni: Se già nell’introduzione al primo volume veniva fatto riferimento agli “almanacchi” e ad altri supplementi di alcune serie a fumetti bonelliane, nel secondo il legame si fa più esplicito, perché si guarda maggiormente alle ramificazioni mediatiche – e transmediali – di quanto abbiamo chiamato “orrore popolare”. Non che tale attenzione manchi nel primo volume; tutt’altro: nel concetto stesso di “orrore popolare” è insita l’ibridazione del folclore con il pop e, pertanto, una simbiosi con i meccanismi dell’industria culturale. Però nel primo volume la declinazione massmediatica di certi fenomeni (miti, credenze, superstizioni, leggende rurali e poi urbane) era perlopiù un implicito punto di arrivo. Nel secondo, specularmente, la trasmissione e la rivisitazione massmediatica sono un punto di partenza. Implicitamente o esplicitamente, dunque, si procede a ritroso. I due libri sono complementari, ma sarebbe fuori strada chi pensasse che i due sguardi, semplicemente, si giustappongono. È una questione di prospettive, certo, ma mai nettamente distinte, anzi, semmai ambiguamente alternate. Proprio perché la nostra idea di “orrore popolare” esprime una peculiarità italiana, in cui la linea di confine tra spazi rurali e cittadini, centro e periferia, risulta parecchio sfuocata (anche laddove amministrativamente si parla di veri e propri ambiti metropolitani), tra il primo e il secondo volume non c’è un passaggio del testimone, bensì il rilevamento di una piuttosto lunga e metamorfica convivenza, se non osmotica fusione.
Come avete lavorato al palinsesto e alla scelta dei contributori?
Fabio Camilletti: Con lo stesso criterio di sempre, libertà assoluta per gli autori e per noi. In ogni caso, prima sono arrivati i contributi, e poi è arrivata la loro disposizione: non è stato un progetto calato dall’alto, su una struttura prefabbricata, e la collocazione nell’uno o l’altro volume dipende più dalla sensibilità e dall’ispirazione dei singoli autori – cittadina o villereccia, folk o pop, centripeta o centrifuga… – che da un ordine preconcetto. Resta il fatto che, come diceva anche Fabrizio in termini diversi, la divisione fra folk horror e urban wyrd, per noi, non risponde davvero a criteri tassonomici o normativi, e mira piuttosto a catturare i due volti di un fenomeno che, al fondo, è il medesimo: e che altro non è se non il gioco dialettico, quasi un’alternanza fra yin e yang, di disincanto e reincanto sullo sfondo della modernità culturale (in questo caso italiana). In questo volume, nello specifico, la nostra ideale macchina da presa indugia un po’ di più su una sfera che potremmo definire, astrattamente, ‘metropolitana’: e però non dobbiamo dimenticare che la città italiana raramente recide del tutto i propri contatti con la campagna, che rimangono invece ramificati e profondi, e a più livelli: geografico, urbanistico, sociale, simbolico. È dunque difficile (e forse inutile) capire dove finisce il folk horror e inizia l’urban wyrd; e dove finisce l’”Almanacco dell’orrore popolare” e dove inizia quello dell’”Italia occulta”. Per noi, per me sono stati sempre pannelli di un dittico: un’idea che è poco diffusa in ambito editoriale, ma che ha una lunga tradizione in quello musicale. “Kid-A” e “Amnesiac”. “Use Your Illusion I” e “II”. “Good As I Been to You” e “World Gone Wrong”.
Dal coinvolgimento di alcuni autori di Casa Bonelli, il legame con il mondo del fumetto o di periodici come “Storie Arcane” risulta piuttosto stretto. Possiamo parlare di questo?
Fabrizio Foni: Nel primo almanacco si parla già di fumetti, non solo bonelliani, e c’è un saggio che, per quanto di fumetti non parli, è firmato da Gianmaria Contro, che da oltre vent’anni lavora in Bonelli. Nell’almanacco appena uscito, tuttavia, la cosiddetta nona arte viene maggiormente presa in considerazione come fonte immaginifica di nuove mitologie. Nuove per modo di dire, perché il fumetto (al pari del cinema, della narrativa, della televisione, della cronaca…) assorbe e riadatta credenze e inquietudini avvertite come contemporanee che, al tempo stesso, rivelano una matrice antichissima. In più, nel quadro degli anni Sessanta e Settanta, il fumetto ha finito per rispecchiare il coevo revival occultistico: non si poteva pertanto ignorare la rivista “Horror”, uscita fra il 1969 e il 1972, cofondata dal padre di Martin Mystère, Alfredo Castelli, sulle cui pagine oltre alle nuvole parlanti trovano spazio, tra le varie, articoli e rubriche sul mistero e la magia. Ma anche serie a fumetti tascabili quali “Jacula”, “Zora la Vampira” e “Cimiteria”, giusto per citarne alcune, pur presentandosi come meno raffinate e, per l’epoca, a tutti gli effetti oscene, dischiudono a uno sguardo un minimo avvertito una fitta rete di rimandi e citazioni, verbali e visive, che mescola folclore, esoterismo, letteratura e tante altre suggestioni. Con “Martin Mystère” e “Dylan Dog” in seguito, e specialmente con i relativi almanacchi e supplementi, si è in modo sistematico spronato il grande pubblico ad approfondire letture, visioni, ascolti, benché sempre in punta di penna, senza mai essere pedanti. E la successiva rivista “Splatter”, per quanto di relativamente breve durata, non è stata in questo senso da meno. Basta menzionare questi periodici per ravvisare nella fabbrica del fumetto una causa e simultaneamente un effetto di certi interessi, di un clima vivace e diffuso. È stato del tutto naturale quindi, per l’“Almanacco dell’Italia occulta”, interpellare chi, come Moreno Burattini, Luigi Cozzi e Paolo Di Orazio, ha vissuto tali stagioni da protagonista. A proposito della nostrana Woodstock dell’orrore, vale a dire l’ormai leggendario Dylan Dog Horror Fest, ci siamo affidati ai ricordi di Stefano Marzorati, che ne è stato il direttore artistico. Quanto a “Storie Arcane” non dico nulla: lascio ai lettori la curiosità di scoprire di cosa si trattava.
Se il folk horror, oggetto del primo almanacco, ha come riferimento cinematografico quella “empia trinità” – come la definisce Fabrizio nell’introduzione – formata da “The Wicker Man”, “La pelle di Satana” e “Il grande inquisitore”, quali riferimenti ha l’urban wyrd nella Settima arte?
Fabio Camilletti: Quella del folk horror è un’estetica frastagliata ma precisa, che non a caso ha dato vita a un canone ideale: che va dall’“empia trinità”, appunto, a esperimenti recenti come “A Classic Horror Story”, prodotto da Netflix, passando per Avati e altri. L’urban wyrd, invece, è più un’atmosfera, e per di più vincolata alle specificità dei singoli contesti urbani in cui è calata: per questo se ne trovano tracce magari più flebili, ma decisamente più trasversali. Pensiamo a certe pellicole di Fellini, “Giulietta degli spiriti” su tutte, ma anche a tutti quei film che a vario titolo trasfigurano in chiave lunare certi paesaggi urbani della penisola: “Anima persa” e “Fantasma d’amore” di Dino Risi, ad esempio, dedicati rispettivamente a Venezia e Pavia, oppure tutta la miriade di film e sceneggiati che hanno esplorato l’immagine di Roma in chiave fantasmatica, da Pietrangeli a Ozpetek passando per “Il Segno del Comando”. Per non dimenticare pellicole che avvicinano temi ‘lunari’ in chiave umoristica, ma comunque rappresentandoli: penso a “Questi fantasmi” di Eduardo De Filippo e alle sue molteplici incarnazioni cinematografiche, alla seduta spiritica che compare in “Totò, Peppino e… la dolce vita” di Corbucci o al recentissimo “cinepanettone horror” di Christian De Sica, “Sono solo fantasmi”, del 2019. Fantasmi da ridere, questi: e però sempre fantasmi; e con alle spalle una tradizione illustrissima, che parte da Plauto e arriva a noi passando per Svevo e Pirandello.
A cosa state lavorando? C’è il progetto di una terza miscellanea?
Fabrizio Foni: Onestamente, un terzo almanacco non è stato preventivato. Se da un lato non se ne esclude a priori la possibilità, dall’altro direi che la cosa è un po’ prematura. Per quanto mi riguarda, sto tra le varie lavorando a un progetto editoriale che prenderà un bel po’ di tempo prima di vedere la luce. Ma per scaramanzia non aggiungo altro.
Fabio Camilletti: Quest’anno segna due importanti anniversari – il cinquantennale della morte di Dino Buzzati e il centenario della nascita di Peter Kolosimo – e sono coinvolto in iniziative e progetti dedicati a entrambi. A un livello più personale, sto lavorando a un nuovo libro sul ritorno dei morti nell’Italia contemporanea, dalla fine degli anni Settanta a oggi, tra letteratura e folclore urbano: un lavoro individuale, una volta tanto, che non esclude comunque di ritornare prestissimo a una dimensione collaborativa e plurale.