Una delle strategie di composizione più particolari è il piano sequenza, definibile come una ripresa in continuità. Utilizzata in modo sistematico nell’ambito del Neorealismo, la tecnica è stata poi felicemente esportata all’estero e ha trovato applicazioni interessanti anche negli Stati Uniti e nel cinema orientale. Proprio per la sua origine storica molto ben definita, il piano-sequenza ha da sempre vissuto con una spada di Damocle sopra la testa: non si tratta, per così dire, di un artificio linguistico “trasparente” dal momento che nel corso della sua (pur breve) storia, è stato veicolo di svariate ideologie estetiche.
Consideriamo il lungo e celeberrimo piano sequenza di Paisà (Rossellini, 1946): l’inquadratura perde qualsiasi carica espressiva e serve soltanto a mostrare allo spettatore che cosa si sta consumando di fronte ai suoi occhi (in questo caso, l’uccisione dei partigiani). Potremmo ragionevolmente dire che “tutto è nella scena”, che sembra svolgersi indipendentemente da noi, dalla presenza cioè di un soggetto esperienziale che fattivamente si mette in relazione con essa. Sembra quasi che la macchina sia stata lasciata accesa per errore e abbia continuato a girare, riprendendo un frammento di vita vissuta che ora noi, per qualche fortuita circostanza di conservazione, possiamo vedere.
Ben diverso è il caso dell’incipit di L’infernale Quinlan (Welles, 1958): il lungo piano sequenza che ci proietta dentro la vicenda, introducendone la causa e i personaggi è ben lungi dal rappresentare una mera contemplazione di avvenimenti “altri”. La mobilità della macchina da presa è massima, tanto che non si ritrae dall’alzarsi a volo d’uccello sulla città per condurci da una parte all’altra della scena (con uno stratagemma anticlassico ma tipicamente wellesiano). Gli eventi non solo smettono di essere indipendenti dal nostro sguardo, ma sembrano muoversi apposta per noi: le acrobazie dell’occhio cinematografico non servono ad altro che a mostrarci esattamente ciò che si deve vedere.
Cerchiamo ora di capire quali più profonde implicazioni etico-estetiche sono sollevate da questo diverso modo di utilizzare l’elemento del piano sequenza; per farlo sarà necessario appellarsi a conoscenze storiche che, come succede molto spesso, sono la base imprescindibile da cui partire. Il Neorealismo è, in qualche modo, un’avanguardia temporalmente posteriore ma certamente non meno innovativa: suo merito principale sarà quello di preludere allo stile cosiddetto Moderno, alleggerendo la pesante macchina del cinema classico e aprendo a nuove soluzioni (l’estetica dell’imperfetto etc.). Non è un caso che questa istanza di veridicità, che va spesso a scapito della bellezza delle immagini, si sviluppi proprio in Italia nel periodo post-bellico: un Paese diviso in due, semi-distrutto dalla guerra non poteva più credere nelle belle illusioni di Hollywood e aveva bisogno di rinnovarsi. Il piano sequenza diventa allora uno strumento di riproduzione “esatta” del reale, il microscopio attraverso cui osservare la vita autentica di un’Italia che aveva smarrito se stessa.
In definitiva, il piano-sequenza rappresenta, nella sua essenza originaria, un modo per dare voce a un mondo che aveva necessità di gridare, a tal punto che era in grado di riempire una scena senza inutili fronzoli o posticce invenzioni. La situazione in America era ben diversa e Welles ce lo dimostra: il piano-sequenza del suo Quinlan è un’unica, lunga acrobazia di un occhio movimentato e frenetico (e per questo molto americano). Il regista adotta qui il procedimento sviluppato in ambito neorealista, compiendo in un certo qual modo un tradimento: non è più l’immagine a parlare da sola, saturando la semantica della sequenza col suo mero apparire, ma il regista che sceglie di guidare lo sguardo dello spettatore attraverso un mondo labirintico, vergando un tracciato ben definito e dal quale non è possibile uscire.
Questi due semplici esempi sono la punta di un iceberg che percorre tutta la storia del cinema: gli utilizzi del piano-sequenza in effetti ripropongono un tema centrale nel dibattito sulla settima arte, sottolineando ancora una volta una dialettica che spesso si tende a dimenticare. Siamo infatti di fronte, ancora una volta, a una scelta di campo che – sebbene non esclusiva – diventa un atto irrinunciabile per definire il proprio rapporto con il cinema: narrazione coinvolgente (ma visivamente anestetizzante) oppure indagine sul linguaggio sperimentale (ma spesso poco attraente)?
Giuseppe Previtali