L’angolo di Michele Anselmi

Ancora qualche parola su “La legge di Lidia Poët”, la miniserie su Netflix, prodotta e in parte diretta da Matteo Rovere, ispirata alla figura dell’omonima avvocata piemontese, di cultura valdese, nata nel 1855 e morta nel 1949. Ringrazio sia chi ha apprezzato il mio pezzo del 19 febbraio scorso (lo trovate qui) sia chi ha espresso motivi di critica o perplessità, perlopiù gentili, a parte una sciocca stroncatura sommaria. Naturalmente la serie può piacere o no, e certo aver tolto ogni riferimento, pure “en passant”, alla sensibilità protestante del personaggio ha creato qualche stupore nella comunità valdese di cui mi sento un po’ parte.
Ma rileggendo alcuni commenti, tutti legittimi per carità e originati da gusti personali indiscutibili, mi sembra di poter dire che non si sia ben capita la logica, anche estetica, dell’esperimento. A me, che giovane non sono avendo 67 anni, risulta invece del tutto evidente.
Prendere un personaggio storico poco conosciuto, una donna audace, sessualmente disinibita, una “femminista” ante-litteram, per farne un’eroina a suo modo moderna, cioè che parla anche e soprattutto ai giovani d’oggi che consumano fiction sulle piattaforme digitali e non sulle tv generaliste. Per questo, nonostante l’accurata ambientazione ottocentesca, siamo nello stesso anno della stupenda serie western americana intitolata appunto “1883”, Matilda De Angelis, che incarna Lidia, fa l’amore in modo disinvolto, non vuole legami stabili, dice “cazzo” e “stronzo” mentre sotto pulsano canzoni rock in inglese e francese.
Certo: tutto ciò è poco fedele sul piano storico, ma “La legge di Lidia Poët” non è una biografia in stile Raiuno o Canale 5, non aspira a tratteggiare punto per punto la lunga vita di quella prima avvocata iscritta all’Albo professionale, punta altrove, cioè alla costruzione di un personaggio a suo modo “iconico”, come s’usa dire oggi, una specie di Sherlock Holmes in gonnella. Ovvero una donna 28enne, indocile e progressista, piantata in una Torino retriva e maschilista. Non capisco perché scandalizzarsi allora se echeggiano musiche rock. Nel 2006, spiazzando molti spettatori, Sofia Coppola piazzò canzoni di Siouxie & the Banshees, Bow Wow Wow e The Strokes nel Settecento incipriato di “Marie Antoinette”, sancendo uno stile che sarebbe stato ripreso da tanti e tante, inclusa la nostra Susanna Nicchiarelli in “Miss Marx”, per dirne una.
In ogni caso, ecco, senza fare i nomi, alcuni dei commenti arrivati.
“Se anzianità è sinonimo di accuratezza di racconto e costruzione dei personaggi, beh viva Matusalemme. Se modernità è far parlare ieri con la lingua dell’oggi, be’ fate i film nelle periferie degli anni Duemila. E soprattutto se fate ‘gialli’ non delegate la detection alla spiega finale”.
“La sto vedendo. Buona anche se alcune sbavature (nei dialoghi un po’ dell’oggi e qualche ‘cazzo’ di troppo in bocca alla protagonista) potevano essere evitate”.
“De Angelis e Scarpetta convincenti, un po’ ridicolo che nessuno, neanche la lavandaia, parli con accento piemontese. Non ti pare?”.
“Un accenno al suo essere valdese lo avrei fatto, per molti sarebbe stata una curiosità da approfondire. È anche molto probabile che Poët avesse una gran consapevolezza di sé (per chi conosce la sua biografia) anche per la sua provenienza religiosa”.
“Mah! Forse i giovani potrebbero capire che tra ieri e l’oggi non c’è un filo continuo senza cambiamenti. D’altronde la storia non avrebbe senso se non ci fosse un abisso sui diritti delle donne e dei lavoratori tra allora e oggi. Comunque la serie è piacevole”.
“Mi sembra l’ennesima serie di ispettori, commissari, pretori e brigadieri al genere femminile. Per certi versi mi ricorda il commissario Ricciardi (forse perché in costume? boh). Si vede la zampata di Matteo Rovere e colonna sonora stre-pi-to-sa!”.
“Peccato per i dialoghi, totalmente sbagliati (a proposito, una donna degli anni ottanta dell’Ottocento non avrebbe mai imprecato dicendo ‘cazzo’). Possibile che non si riesca a utilizzare un italiano meno contemporaneo e adatto e credibile?”.
“Tralasciando alcune incongruenze narrative e il fatto che Torino sembri appena scartata dal cellophane per quanto è pulita, colpisce un linguaggio non consono all’ambientazione: i personaggi sono alquanto sboccati e si danno quasi tutti del tu”.
Mi fermo qui, ma potrei continuare. Per dire, l’amico regista e sceneggiatore Francesco Bruni, reduce da una bella serie per Netflix da lui diretta, “Tutto chiede salvezza”, ha scritto ironicamente sulla sua pagina Facebook, ma forse alludendo ad altro: “Aspettiamo impazienti la serie su Cristoforo Colombo in cui sulle caravelle si ascolta il rock”.
Ripeto: ogni parere su “La legge di Lidia Poët” è naturalmente lecito, nessuno ha l’esclusiva del gusto, ma in ultima istanza, una volta considerata l’oggettiva qualità professionale della miniserie prodotta da Grøenlandia, resta un unico parametro valido, secondo me: dopo una puntata ho avuto voglia di vedere le altre cinque o no?

Michele Anselmi