L’angolo di Michele Anselmi
Oggi, giovedì 25 maggio, esce nelle sale italiane “Rapito” di Marco Bellocchio. Ho scritto più volte del film in questi giorni, ritenendolo bello, potente e importante; potete trovare qui su Facebook, nel caso foste interessati, un’ampia recensione critica, un elogio dell’attrice Barbara Ronchi, il racconto di uno strano sogno con papa Pio IX, pure un editoriale tutto politico sul tema di Maurizio Molinari, direttore di “la Repubblica”.
Naturalmente spero che “Rapito”, titolo ben più efficace dell’originario “La conversione”, sia un successo di pubblico, benché l’uscita a fine maggio rischi di essere sfavorevole; non a caso Nanni Moretti ha voluto lanciare “Il sol dell’avvenire” a metà aprile, con buoni risultati commerciali (a oggi 3 milioni e 718 mila euro, alla sesta settimana).
Non che i due film siano paragonabili. L’uno, quello di Moretti, ha toni da commedia pur nel sottotesto asprigno, e ripropone un’immagine abbastanza rassicurante, anche divertente
, del mitico protagonista quasi settantenne; l’altro, quello di Bellocchio, 83 anni ben portati, rievoca, come saprete, la storia vera di un bambino ebreo, Edgardo Mortara, che fu appunto rapito, diciamo sottratto con la forza alla sua famiglia, dalla Gendarmeria pontificia, nel giugno 1858, per farlo crescere “da buon cattolico” nella romana Casa dei Catecumeni, pagata, forse non tutti lo sanno, con le tasse imposte dal Vaticano alle Sinagoghe.
Ora so bene come sarà visto generalmente il film: come un atto d’accusa forte e veemente nei confronti del “Papa-Re”, appunto Pio IX, pure beatificato da papa Wojtyla nel 2000, insomma come un lucido attacco, sia pure in forme artistiche, al potere secolare della Chiesa cattolica, alla pratica delle “conversioni forzate”, alla pratica coercitiva del “lavaggio del cervello” in una delicata fase della crescita, alla figura melliflua e diabolica insieme di quel pontefice senigalliese.
Tutto giusto: “Rapito” è questo. Soprattutto nell’incipit perfetto, per sobrietà e verosimiglianza, senti la violenza inaudita di quel sequestro, la logica burocratica del Sant’Uffizio e della gendarmeria, la furente rassegnazione della famiglia ebraica, privata di quel sesto figlio, su otto, poi diventati nove.
Non so se papa Francesco vedrà il film, come auspica il regista piacentino che fu cattolico da giovane e ora non più, ma non sta qui il problema. Uso queste righe, sapendo di espormi a qualche sospetto revisionista, per dire che “Rapito” è tutto ciò che avete letto anche qui sopra, quindi anche un film di forte impronta storico-politica, e tuttavia, sommessamente consiglio, andrebbe visto con uno sguardo non solo ideologico, per la serie “i buoni” e i “cattivi”.
È Bellocchio stesso, nel corso delle oltre due ore, a modificare il suo punto di vista, a osservare i cambiamenti del piccolo e poi giovane Edgardo Mortara, futuro sacerdote con nome Pio, in modo che lo spettatore s’interroghi su quella conversione, al di là della naturale esecrazione che viene certo spontanea.
Nel suo memoriale Mortara annotò: «Allorché io venivo adottato da Pio IX tutto il mondo gridava che io ero una vittima, un martire dei gesuiti. Ma ad onta di tutto ciò, io gratissimo alla Provvidenza che mi aveva ricondotto alla vera famiglia di Cristo, vivevo felicemente in San Pietro in Vincoli e nella mia umile persona agiva il diritto della Chiesa, a dispetto dell’imperatore Napoleone III, di Cavour e degli altri grandi della terra. Che cosa rimane di tutto ciò? Solo l’eroico “non possumus” del grande Papa dell’Immacolata Concezione».
Parole sorprendenti, che tuttavia, per onestà, non possono essere ascritte solo a un’orribile pratica subìta, a una progressiva perdita di identità religiosa, alla ferocia dell’istituzione religiosa. Non a caso Fabrizio Gifuni, che incarna l’Inquisitore bolognese Pier Gaetano Feletti, ha detto a “La Lettura” in una arguta intervista: «Il percorso che fa Edgardo in età adulta, abbracciare in pieno il cattolicesimo, non è liquidabile con gli strumenti della sola ragione. In questo vedo sempre lo sforzo di raccontare la complessità e il mistero dell’animo umano».
Ecco, meglio non si potrebbe dire. Il laico e anticlericale Bellocchio, nel ricostruire sullo schermo l’atroce “caso Mortara”, non si ferma allo sdegno facile: certo c’è il discorso su la famiglia, il potere, la religione oppressiva, l’istituzione totale, al punto da far scadere nella macchietta, secondo me, il ritratto di Pio IX, ma poi ci sono, come ha scritto la collega Erica Arosio, “le deviazioni improvvise, gli attimi di isterica follia”, insomma una dimensione visionaria, tra onirica e psicoanalitica, che sarebbe un peccato non considerare pur stando dalla parte del piccolo Edgardo e della sua sventurata famiglia.
Michele Anselmi