Per i tipi di Shatter è in libreria “Andrzej Żuławski. I film di un cineasta scrittore”, la monografia di Alessandro Romano che analizza la carriera del regista di “L’importate è amare” e “Possession”, senza tralasciare l’importante produzione letteraria, sviluppata sui temi temi ricorrenti quali l’Apocalisse, la Gnosi, il Doppio, il connubio tra arte e vita. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Il libro che pubblichi per Shatter colma – con il solo precedente del volume di Michele Salimbeni pubblicato una ventina di anni fa per RES Edizioni – una lacuna clamorosa nella riflessione critica italiana. Perché Żuławski, sempre citato en passant nelle disamine critiche su altri cineasti a lui affini per tematiche o aree geografiche, è così poco studiato da noi?
Alessandro Romano: Intanto grazie di avermi interpellato per poter parlare di questo artista così importante per me. È una domanda interessante e credo senza una vera soluzione, se non una leggera miopia che contraddistingue certa editoria italiana. Anche perché il libro – non in questa veste, ma comunque su questo argomento – era stato proposto ad altre case editrici ancora diversi anni fa, ma nessuna si era detta interessata. Credo possa essere stata dettata da una certa cattiva distribuzione che Żuławski ha purtroppo incontrato, specie nei suoi ultimi film, presso il mercato italiano. Ma anche questo è un alibi abbastanza debole, dato che, almeno i suoi film più noti, in Italia sono conosciuti. Direi che Żuławski è un autore di così difficile collocazione, che forse nessuno aveva il desiderio di cimentarsi con un argomento scomodo e provocatorio come è, ancor oggi, la sua filmografia.

“Giro film perché sono uno scrittore, scrivo libri perché sono un regista”, celebre sintesi di Żuławski del proprio lavoro, conferma quanto i due campi riescano più volte a sconfinare l’uno nell’altro, creando una terza modalità di espressione sia sulla pagina scritta che sullo schermo. In che modo, avviene questo scarto in avanti rispetto agli altri registi/scrittori?
A.R.: Żuławski scrittore e Żuławski regista sono, a mio avviso, un tutt’uno e non riscontro in nessun altro autore questa peculiarità. Penso a Neil Jordan, Pedro Almodòvar, lo stesso Woody Allen, penne straordinarie e nel contempo magnifici cineasti, ma nessuno di loro è come Andrzej Żuławski. Perché l’argomento principale dei libri del regista polacco – almeno una buona parte – è se stesso. E questo senza peccare di narcisismo. Più che a cineasti, io penserei a scrittori come Céline, Henry Miller o Witold Gombrowicz, con i loro “auto-romanzi”, opere in cui il personaggio principale non è semplicemente un alter-ego, ma è l’autore stesso, senza filtri, che compie azioni fittizie. È interessante sottolineare come Żuławski trasformi la sua pagina scritta in qualcosa di potentemente visivo, senza perdere la qualità letteraria. Così come, nei suoi film, i copioni sono sempre dettagliati e pieni di parole forti, scultoree.

“La terza parte della notte”, dopo i corti “Canto dell’amore trionfante” e “Pavoncello”, rivela la nascita di un autore che ad una personalissima modalità espressiva sa coniugare anche una riflessione impietosa sulla storia del proprio paese. Cosa ne pensi e come credi si sviluppi questa costante compresenza di stile e contenuto nell’opera di Żuławski?
A.R.: Żuławski diceva che per molti autori polacchi della sua generazione il cinema che essi facevano era un completamento della propria biografia. È ovvio allora che la Storia della Polonia si riverberi per forza di cose nelle loro opere, anche quando non si metta in scena esplicitamente un fatto di cronaca o con contorni verosimili (penso, ad esempio, ai film di Polański e Borowczyk). Per quanto riguarda il dittico stile/contenuto, Andrzej Żuławski era un profondo conoscitore di cinema, anche a livello tecnico, e sapeva sempre adeguare le vicende narrate ad una forma adeguata, che è forse il tratto più distintivo della sua opera: quello che, nel corso del tempo, resterà nella memoria degli spettatori. Uno stile alle volte funambolico, eccessivo, barocco, ma che era il giusto registro per le sue storie così intrise di passione.

“Possession”, nel 1981, consacra Żuławski come un nome di culto del cinema contemporaneo, e echi di quel film sedimenteranno nel cinema di molti altri cineasti, tra tutti David Lynch. Che ne pensi?
A.R.: Sono assolutamente d’accordo con la tua osservazione! Credo ti riferisca alla celebre citazione di Lynch durante la consegna del Leone d’Oro alla carriera. D’altronde, entrambi sono registi con uno stile e delle tematiche affini, ma, a mio avviso, molti altri registi sono debitori, in qualche modo, del cinema di Żuławski, del suo modo peculiare di far recitare gli interpreti, oltre che delle sue atmosfere visionarie, a volte malsane, a volte melodrammatiche, ma sempre sorrette da una grande eleganza formale. Secondo me, alcuni autori come Winding Refn, von Trier, Noè, forse lo stesso Aronofsky, gli devono molto. Ma magari non lo ammetteranno mai.

“Amour braque – Amore balordo”, “La nota blu”, “Le mie notti sono più belle dei vostri giorni” e “La fidélité” sono il quartetto di pellicole che Żuławski gira con la ex moglie Sophie Marceau, e sono quattro esperimenti diversissimi tra loro. Possiamo parlarne?
A.R.: Certo che sì. Sophie Marceau è la Musa di Andrzej Żuławski. Assieme a lei ha girato un terzo della sua opera, quindi è necessario parlarne, per avvicinarsi all’opera di questo regista. Anche altre interpreti (Adjani, Schneider, Kaprisky, la seconda moglie Małgorzata Braunek) sono importanti e vanno menzionate, ma il rapporto con la Marceau è fondamentale, perché dall’incontro con lei anche il suo cinema è cambiato, diventando, secondo alcuni, più centrato, più risolto, meno disperato. Personalmente, tra i quattro, il film a cui sono più affezionato è “Le Mie Notti sono più Belle dei Vostri Giorni”, perché coniuga due aspetti paradossalmente lontani: l’ironia e il dramma. Con questo piccolo film, girato in un mese, Żuławski ha realizzato un melò visionario e lunare, raccontando una storia semplice, piena di rimandi e simbologie, oltre a fare un lavoro sul linguaggio come pochi altri cineasti prima di lui. “L’Amour Braque” è un capolavoro stilistico costruito su movimenti quasi tutti in diagonale, al servizio di una trasposizione da Dostoevskij, molto legato al periodo in cui venne girato (la metà degli anni ‘80) e che era proprio ciò che il cineasta voleva. Per me è molto importante, perché ho scelto di chiamare l’associazione che dirigo proprio col titolo di questo film! “La Nota Blu” è un’opera malinconica sulla fine dell’amore tra Chopin e George Sand, ma nel contempo è uno squarcio sull’epoca del tardo Romanticismo, sulla questione polacca e anche una fantasmagoria piena di elementi pittoreschi. “La Fidelitè”, canto del cigno dell’amore per la Marceau, è un film complesso, elaborato (è il suo film più lungo assieme a “Sul Globo d’Argento”), in cui, a mio avviso, l’attrice francese ha dato in assoluto la prova più brillante ed intensa della sua carriera. Inoltre “La Fidelitè” è anche una splendida riflessione sull’immagine e sul ruolo etico di chi crea immagini.

Salvo errori, “Sette piccoli film che parlano di musica e ne fanno uno solo” è l’unico suo libro, pubblicato da Profondo Rosso, disponibile in Italia. Quali sono i titoli della sua produzione letteraria da recuperare anche in altre lingue?
A.R.: In realtà, ci sono altri due libri pubblicati in italiano, sempre che siano ancora reperibili. Il primo è un romanzo breve, “Barbablù”, scritto negli anni ‘70, una sua particolare rilettura della figura di Giovanna d’Arco (alla quale voleva dedicare un film, che avrebbe avuto come protagonista la Marceau) e soprattutto quella del suo oscuro luogotenente, il nobile Gilles de Rais. Il secondo è “C’era un Frutteto”, scritto a metà degli anni ‘80, in cui Żuławski – anche personaggio del libro – ascolta un narratore interno raccontargli la vicenda del libro, un triangolo amoroso (tema cardine del suo cinema) ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, in Polonia. Senz’altro, per chi conosce la lingua francese, una grossa fetta della sua cospicua produzione letteraria (oltre trenta volumi) è stata tradotta in quella lingua. Su tutti, direi “Selva Fitta”, un auto-romanzo in cui, tra gli altri, come personaggi ritroviamo Wajda e Polański, e che è uno spaccato ben riuscito della Repubblica Popolare di Polonia tra anni ‘50 e ‘60 del XX secolo. Per chi conosca il polacco o, come me, abbia la voglia di provare a cimentarsi con questo idioma, consiglio “Negli occhi della Tigre” (W Oczach Tygrysa), scritto nel 1992, ma che ha come argomento la carriera di Żuławski dei vent’anni precedenti, in cui a nomi di persone reali vengono poi mescolati alter-ego di figure incontrate nella vita del cineasta, creando un pastiche letterario indubbiamente ricco di fascino.