L`angolo di Michele Anselmi | Pubblicato su Il Riformista

Escono undici film in questo week-end: uno sproposito distributivo, una cosa senza senso. Ma ce n’è solo uno che vale davvero la pena di vedere.  Si chiama “Angèle e Tony”, è francese, del 2010, l’ha diretta l’esordiente Alix Delaporte. Onore alla Sacher di Nanni Moretti che lo propone, anche in versione originale sottotitolata, nella speranza che il pubblico, già impigrito dal caldo e dal commedificio italiano, si faccia venire la curiosità. Lo hanno presentato ieri alla rassegna di cinema francese “Rendez-Vous”, la regista e la protagonista Clotilde Hesme, oggi “Angèle e Tony” è nelle sale italiane. Una ventina di copie, poche, ma chissà che il passaparola non aiuti questa opera prima magnifica e toccante, dove tutto si incastra a meraviglia: ambientazione atipica, “verità” dei volti, forza dei dialoghi, tensione drammaturgica, stile personale, musica col contagocce, storia che prende.

Qui in Italia, diciamo la verità, ce lo sogniamo un esordio così. A spremere la memoria si possono citare “Tornando a casa” di Vincenzo Marra e “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti, ma Alix Delaporte sfodera forse uno sguardo più risolto, a suo modo accattivante: un’idea di cinema che intreccia la lezione severa dei fratelli Dardenne con lo sguardo complice di Robert Guédiguian.

Un amore inatteso e irregolare, che nasce sotto pessimi auspici, per poi trasformarsi in un’altra cosa: questo racconta in 87 minuti – misura aurea – “Angèle e Tony”. Lei è una ex ragazza madre, bella e sbandata. Appena uscita dal carcere dopo aver scontato una pena, perché ritenuta responsabile di un incidente che provocò la morte del marito, la giovane donna ha un obiettivo: per riprendersi la custodia del figlio, affidato ai nonni paterni, deve dimostrare ai giudici di avere un lavoro e possibilmente una famiglia. Lui è un tosto pescatore di Port-en-Bessin, paesino della Bassa Normandia. Abituato a quella vita dura, complicata da leggi che restringono i già bassi margini di guadagno, ha visto morire in mare il padre, il cui corpo non è stato mai recuperato. Insieme al fratello e alla madre, Tony porta avanti la piccola impresa, sperando di trovare, un giorno o l’altro, la donna giusta. Che sia Angèle, scoperta attraverso un annuncio per cuori solitari?

Il film è il resoconto di questo incontro: strumentale, sospettoso, imprevedibile. Capelli scuri alla maschietto, jeans attillati, stivaletti col tacco e giubbetto di pelle, la donna è sgarbata e seduttiva allo stesso tempo. Sa di essere desiderabile, “scopare” per lei non è un problema, ha solo bisogno di infinocchiare un uomo per recuperare il figlio amatissimo, che però neanche le parla. Clotilde Hesme è un’attrice molto bella, si può capire perché all’inizio la Delaporte esitasse a ingaggiarla per il ruolo di questa donna selvatica, aspra, pure sgradevole, senza tetto né legge. E tuttavia la scelta s’è rivelata giusta, perché l’avvenenza distratta e naturale di Angèle si combina perfettamente con il fisico massiccio, rude, proletario di Grégory Gadebois, che sembra un pescatore appena sceso dalla sua barca e invece viene dritto dalla Comédie Française.

Come succede nel miglior cinema, vedendo “Angèle e Tony” fatichi a distinguere gli attori professionisti dalla gente presa sul posto; la messa in scena, che naturalmente c’è, pensata nei dettagli di stile e nell’impasto fotografico, a partire dall’ansimare in bicicletta della donna, quasi a restituire una fatica non solo muscolare, si sposa benissimo all’impianto realistico. Nulla stride nel racconto di un rapporto sentimentale, segnato da poche parole e molte incomprensioni, che sembrerebbe votato al fallimento. Invece non sarà così.

La regista, che nasce giornalista e operatrice per l’agenzia Capa, salvo poi dedicarsi con Canale Plus a ritratti di calciatori francesi, incluso Zidane, per anni è andata in vacanza da quelle parti. Mare, vento, freddo, cieli lividi, uomini duri. Riassume così la storia del suo film: “Lui è il muro contro il quale mando a sbattere Angèle. Una roccia. Ho sempre pensato che il film sarebbe venuto bene se alla fine ci fosse venuta voglia, in quanto spettatrici, di stare tra le braccia di Tony”. C’è del vero. 

Michele Anselmi