L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Partì bene, anzi benissimo, l’Italia, alla recente Mostra di Venezia. Peccato che la giuria presieduta dal francese Alexandre Desplat non non abbia voluto riconoscerlo nel palmarès finale. Più che una svista cinefila è stato un errore madornale non premiare “Anime nere” di Francesco Munzi. Al di là delle rispettive tifoserie: da un lato l’immancabile Roberto Saviano che lo definisce «un film necessario per guardare in volto, finalmente, ciò che sino ad ora è stato ignorato». Dall’altro, l’impagabile assessore calabrese alla Cultura, Mario Caligiuri, che ha perso una buona occasione per star zitto dichiarando: «Non è accettabile leggere titoli e articoli che trasudano stereotipi sulla Calabria “a mano armata”, sull’equazione calabresi-‘ndrangheta che certamente respingiamo e che non ci appartiene; non si può ridurre l’immagine di una regione alle “anime nere”, soprattutto in una vetrina internazionale». Nessuno l’ha fatto in realtà.
“Anime nere” è il terzo film di Francesco Munzi, classe 1969, che si fece notare proprio al Lido nel 2004 con il notevole “Saimir”. Munzi ama un cinema di parole e di silenzi, rigoroso e quasi senza musica, che prende spunto dalle contorsioni criminali, piccole e grandi, per parlare anche d’altro: di antropologia, di società, di intrecci familiari, razzismi annidati. Lo spunto è fornito dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco del 2008, liberamente rielaborato per lo schermo dal regista insieme a Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci. Tre fratelli di Africo, costa ionica a un passo dall’Aspromonte, terra di ‘ndrangheta e pastorizia, si misurano in questa ballata di morte che parte da Amsterdam, passa per Milano e scende giù in Calabria, «dove tutto ha origine e fine» suggerisce il regista. Ma non pensate a una specie di “Gomorra” in salsa calabra, a un “Romanzo criminale” riveduto e corretto. Il film è teso, livido, senza fronzoli, perfetto nelle facce e nei gesti, anche nella violenza continuamente evocata, praticata, cercata; e tuttavia un’inattesa misura stilistica lo porta oltre “il genere”, lo rende complesso e imprevedibile, anche nell’epilogo che altrove avrebbe preso pieghe diverse, da fragorosa resa dei conti tra bande, all’insegna dello show-down.
«Non è un mistero che dall’Aspromonte caprai ed ex caprai, ormai raffinatisi attraverso studi e viaggi, abbiano mosso tonnellate di cocaina grazie a una sapiente tessitura di rapporti criminali costruita nei decenni» premette Munzi. E certo Africo, che della ‘ndrangheta pare sia uno dei centri nevralgici, non era il posto più confortevole dove andare a girare. Infatti Munzi vi arrivò, confessa, «carico di pregiudizi e paure», anche se poi ha visto «la diffidenza del posto trasformarsi in curiosità e le case aprirsi a noi». D’altro canto, il film non fa sconti, non fa “inchini”, tantomeno allestisce un’epopea criminale. Però racconta con cura le dinamiche tragiche che spingono i tre fratelli dall’anima scissa verso un cupio dissolvi dai tratti, forse, scespiriani. Insomma, la vera faida è interna alla famiglia più che nei confronti del clan rivale.
Marco Leonardi è Luigi, un trafficante internazionale di droga, baldanzoso e spregiudicato, capace di allargare i confini del proprio agire senza dimenticare da dove viene, anzi quasi facendone un vezzo. Peppino Mazzotta è Rocco, milanese naturalizzato, sa atteggiarsi a borghese, ha una bella famiglia e sa muoversi nel ramo immobiliare (c’è un vago riferimento ai cantieri dell’Expo) usando i soldi del fratello. Giù ad Africo è rimasto Luciano, incarnato da Fabrizio Ferracane, il più anziano e saggio dei tre: fa il veterinario, veste alla contadina, coltiva l’illusione di una Calabria pre-industriale, dentro un malinconico e solitario culto dei morti, tra statue di santi, pietruzze sciolte nell’acqua e bevute, fotografie ingiallite del padre pastore morto ammazzato. Ma suo figlio Leo, ventenne, scalpita, gli piace sparare, forse non solo alle vetrine, e una bravata per vendicare uno sgarbo diventa la scintilla che farà divampare l’incendio.
La forza di “Anime nere” sta in un senso di minaccia costante, che non lascia mai tranquilli: senti la rabbia che si gonfia, lo capisci dai visi tesi, dai cappotti di pelle, dalle capre sgozzate e arrostite, dalle pistole che spuntano, dai macchinoni neri rigorosamente tedeschi, dagli avvertimenti in codice mafioso. E tuttavia il film va oltre il crimine, gli spari e gli omicidi che pure ci sono, benché restituiti senza compiacimento, per sequenze rapide, volutamente sfocate. Sicché l’archetipo mafioso, nella sua variante familistica vista tante volte al cinema, lascia qui spazio a una meditazione sull’impossibile, benché rivendicata, convivenza di arcaico e moderno: tra prefiche salmodianti in nero e audaci trasferimenti bancari, tra «capiscisti?» e computer. I tre interpreti sono perfetti; e con loro il giovane dissennato Giuseppe Fumo, le mogli Anna Ferruzzo e Barbora Bobulova, tutti i personaggi di contorno, a partire dai boss rivali, incarnati da non attori di Africo.
Michele Anselmi