L’anniversario degli 80 anni dalla nascita di Lucio Battisti, nato il 5 marzo del 1943, accendono meritoriamente i riflettori su uno dei geni della nostra musica con speciali tv, approfondimenti giornalistici, interviste agli amici di sempre. Ma per conoscere a fondo il Battisti più ostico e inesplorato c’è soltanto un libro di cui avete bisogno: “Lo spleen di Lucio. Guida all’ascolto dei dischi bianchi di Lucio Battisti e Pasquale Panella”, che Francesco Patrizi pubblica con Arcana. Abbiamo conversato con il critico per provare ad andare un po’ più a fondo nei 5 dischi bianchi.

Dopo “E già” (1982), l’album di transizione (e rinascita) i cui testi per la prima volta sono opera non di Mogol, ma della moglie Grazia Letizia, Battisti entra in contatto con Pasquale Panella per due dischi di Pappalardo che avrebbe prodotto. I brani “Bell’addio” e “Il gabbianone”, poi emersi dal web, sono i primi frutti della collaborazione tra Battisti e Panella. In che modo, indicano la direzione che avrebbero preso i venturi dischi bianchi?
Francesco Patrizi: La versione clandestina che circola sul web di “Il bell’addio” è appena più che un provino, si sente che Lucio ci doveva ancora lavorare. Panella e Battisti devono aver ragionato insieme sull’argomento da trattare per cominciare la collaborazione ed hanno convenuto sul tema dell’addio alle scene di Lucio. Il tema è biografico, ma la trattazione non lo è affatto, infatti Panella comincia citando una celebre poesia di Pascoli e poi declina il tema in maniera molto poetica, mettendoci dentro delle strizzatine d’occhio alla carriera di Lucio (cita ad esempio il celebre foulard!). La canzone parla di suicidio artistico, “bello” perché per il cantante è una liberazione… c’è molta autoironia.
“Il gabbianone” non ha un titolo, è un provino rimasterizzato da qualche appassionato in studio. Qui il progetto Battisti-Panella comincia a prendere un’altra piega, la scrittura diventa molto più complessa, viene citato l’albatros di Baudelaire e il Pierrot di Jules Laforgue.
Panella scrive sempre di Lucio, ma questa volta la riflessione verte sul tema della maschera e sulla figura dell’artista. Poi il sarcasmo irriverente di Laforgue viene accantonato e Battisti-Panella decidono di concentrarsi su “I fiori del male” di Baudelaire, che di Laforgue è stato l’ispiratore.
All’innamorato sciocco Pierrot, subentra il seduttore mascalzone Don Giovanni; tutte e due le immagini riflettono come si vedeva Lucio ripensando alla sua carriera. La seconda maschera è indubbiamente più complessa, secondo Baudelaire l’eroe, una volta punito e spedito all’inferno, non si è affatto pentito! Anche qui c’è molta ironia.

“Lo spleen di Lucio. Guida all’ascolto dei dischi bianchi di Lucio Battisti e Pasquale Panella” sprona il lettore ad andare a fondo nella conoscenza di cinque dischi che – scrivi – “andrebbero visti come i capitoli di una riflessione critica”. Puoi spiegare questo concetto?
F.P.: La riflessione che Lucio andava maturando da tempo riguarda le sue due anime, una più commerciale e diretta verso il gusto del grande pubblico, una più sperimentale e libera, che ha alimentato la vena da cui sono usciti “Amore e non amore” (1971), “Anima Latina” (1974) e brani in stile Stockhausen come “Il fuoco” (1972), che Mogol gli consigliò di non pubblicare.
“Don Giovanni” è Lucio che affronta a tu per tu la sua maschera, quell’indolente che se ne sta spensierato sul lungomai di “Le cose che pensano” non è altri che il cantante pop di successo che canta ipocritamente “ti amo” senza amare veramente nessuno e che fa credere che ogni cosa che canti, riguardi la sua vita. Insomma, è l’icona pop che Lucio detestava, ma che gli ha dato il successo.
Lucio sa bene che la canzone sopravvive al cantante, che l’immagine che ha dato di sé ormai ha vita propria, che sarà sempre l’eterno ragazzo con il foulard di “Mi ritorni in mente”. Da qui parte la riflessione di “L’apparenza”: l’opera d’arte cammina con le proprie gambe, andando in direzioni che l’autore neanche prevede. La protagonista della canzone omonima, infatti, invita l’autore, divenuto ascoltatore della sua stessa opera, a seguirlo in un gioco di fraintendimenti e di libere associazioni.
I seguenti tre dischi sviluppano questo tema del gioco: la canzone è una finzione che sembra vera e l’io che canta sembra vivo, ma la lei tanto amata delle canzoni – che fa le veci dell’ascoltatore – ci crederà? Battisti-Panella mettono in scena questa figura della “ragazza amata-ascoltatore” in tre episodi. In “La sposa occidentale” lei è una ninfomane, prostituta, ispirata a Baudelaire, che se si prende gioco del suo seduttore, ribaltando quindi l’assunto stesso della canzonetta classica.
In “Cosa succederà alla ragazza” lei è la figlia di Leopold Bloom, il protagonista di “Ulisse” di Joyce, e vuole vivere la sua giornata-romanzo, come fa il padre; le capitano mille avventure e finisce per riflettere se sia il caso di sposarsi; anche qui, è stufa di sentirsi dire “ti amo”.
In “Hegel” lei e lui giocano a interpretare i personaggi di “Iperione”, il celebre romanzo di Hörderlin, dove lei-Diotima muore e lui-Iperione la idealizza. Lei però, ad un certo punto, esce letteralmente dalla canzone, perché lui capisce che invece di idealizzare una “lei”, è ora di aprirsi agli altri. In “Almeno l’inizio” qualcuno dice alla ragazza “è tardi dobbiamo andare”, tutta quella messa in scena che è stata la canzone – lui ama lei, la corteggia, la idealizza, eccetera… – per Battisti-Panella è concluso, eppure lei si attarda, tentenna, vuole rivedersi mentre si diverte in questo gioco che è la musica leggera, perché del piacere dell’ascolto della canzone non ci si libera mai, anche quando capisci che è tutto fasullo, finto, scritto a tavolino. Questa, in sintesi, la “filosofia” dei dischi bianchi, o si potrebbe anche dire la “fenomenologia” dei dischi bianchi.

Con “Le cose che pensano”, primo movimento di “Don Giovanni” (1986), la transizione è avvenuta: Battisti non è più Battisti, o meglio è un Battisti che si rivolge a se stesso, più profondo, forse anche stanco del successo che gli ha arriso per tutta la carriera. Possiamo parlarne?
F.P.: Tutto comincia quando Lucio si guarda allo specchio all’interno della copertina di “E già” e al posto dell’immagine riflessa c’è il bagliore del sole, lì Lucio decide di scomparire e di essere solo una voce che esce dal vinile, vuole che sia giudicata solo la sua opera. Quello che chiede a Panella è di mettere in versi il suo percorso di autoanalisi. Panella capisce che quello che Lucio ha di fronte, cioè la sua icona, è un indolente cantante pop che ha avuto vita facile, uno strepitoso successo e che, se solo vorrebbe, potrebbe continuare a vivere di rendita scrivendo canzonette come in passato.
Il Battisti maturo non vuole più essere l’esangue fantoccio commerciale di “Le cose che pensano”, vuole essere sincero e comincia denunciando una verità: non ci vuole niente a scrivere una canzone di successo, è una questione di ingredienti, “Fatti un pianto” lo spiega bene. È ora di dare uno scossone agli ascoltatori, di aprirgli gli occhi, anzi le orecchie.

In questo bellissimo libro che pubblichi con Arcana, analizzi i dischi bianchi ricorrendo ad un amplissimo apparato di riferimenti filosofici, poetici e musicali, del tutto, inediti per la produzione del cantautore. In quale misura, se è possibile decretarlo, Baudelaire, Joyce, Hölderlin e la filosofia di Emmanuel Lévinas sono farina del sacco di Panella?
F.P.: È impossibile dirlo, sappiamo che Lucio e la moglie tediavano a morte il povero Petruccio Montalbetti quando lo invitavano a cena, sproloquiando di psicologia e di filosofia… Panella sicuramente aveva la cultura giusta per stargli dietro.
Dalla minuziosa analisi che ho fatto, ho notato ad esempio che serpeggia qua e là T. S. Eliot, (c’è molto dei “Quattro Quartetti” in “L’apparenza”), però non c’è il pensiero di fondo del poeta statunitense, secondo me è stato più un apporto di Panella, forse non del tutto condiviso da Battisti, altrimenti avrebbe avuto un disco tutto dedicato a lui.
Su Lévinas mi sono fatto l’idea che Panella lo abbia inserito un po’ a forza in “La voce del viso”, parafrasando e travisandolo il pensiero di questo filosofo così difficile, Battisti forse stava chiedendo troppo al suo paroliere. Panella si muove con più disinvoltura con i poeti francesi.

Come è nata l’idea di questo libro che colma una lacuna profonda?
F.P.: Ho provato a mettermi nella psiche di Lucio Battisti, ho cercato di individuare qual è stato il suo trauma (l’etichetta di nazional-popolare, la critica che lo liquida come commerciale), il lutto (l’uccisione dell’icona pop) e l’elaborazione che ne consegue (che comincia con il conflitto con la maschera). Insomma, per capire i dischi bianchi, ho dovuto capire da cosa nascevano, poi mi sono lasciato coinvolgere dall’opera, come volevano Battisti-Panella, e mi sono immerso nel gioco di citazioni e di rimandi.