William Shakespeare | Un drammaturgo in crisi di identità

Chi era realmente Shakespeare? Se a porsi la questione è un anziano su un palco teatrale ci troviamo davanti al grande schermo e stiamo assistendo alla proiezione di “Anonymous”, l’ultimo film di Roland Emmerich in uscita oggi, venerdì 18 novembre. Da questo dubbio ha inizio un vero e proprio universo di fantasia, il cui sipario si apre su una ricostruzione in costume nell’Inghilterra cinquecentesca di Elisabetta I. Il presupposto base per la scrittura del progetto è un dato che ci viene chiesto di considerare valido in assoluto, senza riserve: a quei tempi scrivere per il teatro rappresentava un obiettivo da tenere nascosto, un atto “vergognoso” se auspicato da un nobile (è curioso pensare che su una simile tematica ironizza Alan Bennett nel suo “La scrittrice sovrana”, in cui ipotizza la possibilità che la cultura diventi una sorta di dipendenza proibita per la sovrana d’Inghilterra).  

Nel film Edward De Vere, duca di Oxford, decide di sostituire la sua identità con quella di una persona comune, alla quale affida il ruolo di diffondere la sua opera con l’assunzione di uno pseudonimo da lui stesso inventato: Shakespeare. Emmerich, il regista di “Independence day” e “2012”, sfida se stesso non soltanto con la scelta di un genere totalmente differente dai precedenti, ma con la pretesa – non del tutto  soddisfatta – di rappresentare l’invisibile sul piano del visibile. Il cinema, in effetti, non è che in territorio nel quale il senso della vista regna sugli altri e lo sguardo mira oltre le mura dei palazzi reali pomposi di un perfetto Global Theatre. È lo spazio del mistero soltanto quando quest’ultimo investe la storia ad un certo punto della narrazione, non il luogo dove si indaga sull’ignoto senza punti fissi di riferimento. Il cinema da solo non è sufficiente per indagare su questa personalità.

Alla ricerca di Shakespeare, infatti, si sono mossi studiosi di tutto il mondo, senza riuscire ad esaurire realmente le curiosità legate al suo mito, mentre sul piano della produzione audiovisiva le opere a lui dedicate sono state fin troppe. La gamma d’offerta va dal lavoro di John Madden “Shakespeare in Love” (Usa, 1998), passando per l’interpretazione visionaria di Peter Greenaway in “Prospero’s Book” (L’ultima tempesta, 1991), fino ad arrivare nell’Italia degli anni Sessanta dove l’opera del drammaturgo prende completamente il sopravvento sulla sua figura legandosi al nome di Franco Zeffirelli con il suo “Romeo e Giulietta” (1968). Se già in questo film la questione dell’identità di Shakespeare veniva accantonata a vantaggio di una centralità data alla sua più famosa tragedia, troviamo in tempi a noi più vicini altri lavori cinematografici nei quali perfino il nome di Shakespeare tende ad essere celato. Come se il drammaturgo si stesse nascondendo dietro il tendone dei suoi drammi per dimostrare che non è importante l’autore di un’opera ma la sua universalità, sia essa rappresentata sul palcoscenico di un teatro o su uno schermo televisivo.

L’interesse per i suoi drammi ha talvolta superato il “limite della classicità”, sfociando in uno stravolgimento sul piano diegetico e scenografico, come nel caso di “Sogno di una notte di mezza estate” (1983) in cui Gabriele Salvatores sceglie di trasferire il mondo irrazionale degli elfi in uno scenario metropolitano alquanto stravagante (lo stesso dramma subisce altrettante variazioni ad opera del regista Michael Hoffman in un film omonimo del 1999). La figura di Shakespeare continua a sbiadirsi sempre più se rivolgiamo l’attenzione ai prodotti audiovisivi più “datati”: nel 1955, è ancora soltanto la sua “storia creativa” e non quella individuale a rivelarsi agli occhi del grande pubblico. Il film si intitola “Richard III”, è firmato da Laurence Olivier e si presenta come un’opera fortemente radicata all’originale. Questa tragedia storica – la seconda più lunga dopo “Amleto” tra gli scritti teatrali del drammaturgo – ispirò poi, in modi e tempi differenti, il talento di Al Pacino nel film “Looking for Richard” (1996). Firmando anche la regia, l’attore si rende testimone fedele del messaggio racchiuso nell’opera di Shakespeare: la deformità diviene perfino sinonimo di crudeltà, una crudeltà che rimanda alla reale vicenda di Riccardo Plantageneto e del suo “regno del terrore”. 

Scritto da John Orloff, “Anonymus” vorrebbe rappresentare adesso un nuovo tentativo di scavare nelle radici di un segreto o la più emozionante proiezione per gli amanti dei film di Dan Brown? “Un inganno che dura da secoli”, frase con la quale si chiude il trailer italiano del film, lascia molte perplessità a riguardo. Parlare di Shakespeare è un compito al quale perfino il grande Orson Welles si è in qualche modo sottratto, preferendo immergersi nel Falstaff al punto da renderlo un personaggio anche suo già dall’età di ventiquattro anni, fino ad arrivare alla rappresentazione teatrale degli anni Sessanta: l’identificazione è forte, come sostenne lui stesso nel dichiarare che Falstaff è “uno dei pochi grandi personaggi essenzialmente buoni della letteratura drammatica”. Agli occhi di Welles, tutta la commedia di Shakespeare è giocata sui grossolani difetti di questa figura, ma “la sua famosa codardia non è che uno scherzo a suo danno, mentre in realtà ci sarebbero forti argomenti a sostegno del suo coraggio”. Resta da chiedersi quanto di autobiografico sia rintracciabile nell’opera globale di questo mito attualmente in seria crisi di identità.

Ilaria Abate