di Emanuele Spedicato

 

Presentato al 62° Festival di Cannes come un horror-pornografico scandaloso ed estremo, “Antichrist”, del regista danese Lars Von Trier, si apre con una lunga scena di sesso. L’evento scatenante avviene appunto nei primi minuti: i due coniugi, troppo presi dalla passione, non si accorgono del figlioletto che fuoriesce dal lettino e comincia a girovagare nell’abitazione, fino al tragico momento della caduta della finestra. La donna (Charlotte Gainsbourg) non regge il peso del dolore e sprofonda in una cupa depressione. Il marito (Willem Dafoe), psicoterapeuta di professione, sembra razionalizzare meglio l’accaduto (ma è davvero così?) e si prende l’onere di curare personalmente la moglie, nonostante ciò sia vietato dalla deontologia professionale. Inizia un periodo di elaborazione del lutto, in cui la donna è scossa da violente crisi. Il marito decide di esporla alla sua paura più profonda: il bosco di Eden, dove si era recata tempo addietro per ultimare la sua tesi sulla persecuzione delle donne, in compagnia del figlioletto.
I due raggiungono la casa nel bosco, decidendo di passarvi alcuni giorni. Continua il rapporto terapeutico ma, ben presto, le cose prendono una piega che il razionale psicoterapeuta non aveva previsto: la permanenza diventa a questo punto un incubo in cui i due sprofondano, assediati dalle forze del caos.

Nei giorni precedenti l’uscita, il film è stato presentato più volte come “scandaloso”, “estremo” e chi più ne ha più ne metta (e la stampa ne ha messo). Non che la cosa non abbia una sua logica pubblicitaria, tanto più che i motivi per ritenere “disturbante” questa pellicola non mancano: a cominciare dalle mutilazioni genitali mostrate con provocatoria disinvoltura. Non che il “folle” Von Trier non abbia giocato consapevolmente su tale aspetto.

Quando le scene cominciano a susseguirsi, ci si accorge che, “disturbante” o meno, la trama e la sua messa in scena catturano subito l’occhio e il corpo, comunicando uno stato di tensione continua allo spettatore. L’argomento che interessa a Von Trier è soprattutto il dolore. Il vissuto del dolore. La sua elaborazione. Il suo significato. Il regista danese non si limita a parlare e far parlare i suoi personaggi della disperazione, la mostra. In maniera cruda la trama si dipana su una spirale discendente di paure e cupe visioni, urla e disperazioni. In questo regno del caos il principio della ragione sembra quasi poter conservare un suo spazio, almeno fino a un certo punto.
Il rapporto tra i due personaggi è ben più che un dialogo tra coniugi e tra medico e paziente. Il gradiente di simbolismo qui è particolarmente elevato: si tratta infatti dello scontro tra due entità di freudiana (e junghiana) memoria: principio della ragione e principio dell’impulso istintuale. Maschile e femminile. Controllo contro caos. Uomo contro Natura.
Insomma, al di là dell’impatto effettivamente crudo e shockante, di spunti di interesse quest’opera ne offre diversi, confermando la vena spiazzante e anticonformista del regista.

La frase: «Quando arrivano i tre mendicanti, qualcuno deve morire» ( la donna avverte il marito….)