Si è chiusa anche questa edizione della Festa del Cinema di Roma, la decima della sua storia. Marco Müller ha lasciato il posto ad Antonio Monda che ha apportato una serie di cambiamenti macroscopici. Il budget è diminuito dai 6 milioni del 2014 ai 3 milioni e 600 mila euro di quest’anno. L’assenza della Sala Santa Cecilia (la più grande, con i suoi 1500 posti), insieme a quella di grandi star, ha provocato una netta flessione nei biglietti venduti, nelle presenze e negli incassi complessivi. Monda ha puntato più sui bei film (quasi tutti, comunque, in seconda visione) che sui volti da red carpet, rimasto pressoché desolato per l’intera durata della Festa. Il livello qualitativo medio dei film in competizione è aumentato nettamente. Scontato? Probabilmente sì, visto che Monda è riuscito a pescare a piene mani i migliori lungometraggi dai Festival di Toronto, New York, Londra e dal Sundance. Complessivamente, nonostante le decisioni nettamente autarchiche del direttore artistico, strenue difensore di una linea politica che, nei prossimi anni, rischia di trasformare la Festa del Cinema di Roma da celebrazione popolare a cineclub d’elite per un ristretto gruppo di addetti ai lavori, l’impressione è che, con un tale budget, non fosse lecito aspettarsi di più. I dubbi e le paure permangono, i maggiori ospiti (Joel Coen, Frances McDormand, Wes Anderson, Donna Tartt) fanno parte, da anni, del “circolo Monda”, quindi, sorge spontaneo collegare la loro presenza al fattore amicizia.

Ma, passiamo adesso ai film che ci hanno maggiormente convinto e a quelli che hanno più deluso le nostre aspettative. Primo posto a Microbe & Gasoline. Quant’è bella l’infanzia dei personaggi di quest’ultimo film di Michel Gondry. Dura, difficile da affrontare, infelice. Ma mai priva di immaginazione, come un ingranaggio meccanico che fatica ad andare avanti ma a cui non manca mai un briciolo di olio. Amicizia ed immaginazione: nodi di questo lineare e semplice lungometraggio del regista francese che, dopo qualche errore, ritorna in formissima con un racconto di formazione in stile Truffaut. Si viaggia per la Francia, attraverso i problemi delle relazioni adolescenziali. Si viaggia nel cinema, affondando nelle acque amniotiche dell’artigianalità dei primordi. Meraviglioso, leggero, grazioso. Lunga vita ai bambini di Gondry che, nell’epoca della sottomotricità smartphonica, si sporcano le mani e gettano all’aria i loro cellulari. Per crescere e guardare nuovamente alle cose, senza mai abbandonare i voli pindarici della propria mente.
Dopo Suburra, tocca a Lo chiamavano Jeeg Robot sorprendere il pubblico italiano. Ci hanno provato a dicembre Gabriele Salvatores e la Indigo di Nicola Giuliano. La campagna pubblicitaria è stata ottima, il film discreto. Ci riesce alla grande Gabriele Mainetti. Sperando in un consapevole e “giovane” uso dei social network che, da qui a marzo 2016, dovranno caricare sulle proprie spalle il lancio del film. La storia è quella di una specie di Hulk di Tor Bella Monaca. Pur con qualche limite a livello di sceneggiatura, l’esordio di Mainetti è stata la vera sorpresa di quest’edizione della Festa. Teso, lurido, sporco, pulp, intriso di una profonda romanità, il film ha strappato l’ovazione in sala. Merito di due grandi interpreti, Claudio Santamaria nel ruolo del supereroe inconsapevole e Luca Marinelli, meraviglioso villain di borgata, e di una regia che affonda nel fango e utilizza la struttura dei film americani del genere. Si intrattiene senza pretese intellettualistiche, si diverte il pubblico senza prendersi mai sul serio. Speriamo in un buon riscontro, le premesse, di certo, non mancano.

Non poteva mancare, infine, la trasposizione di un’opera letteraria. The End of the Tour è tratto da Come diventare se stessi: un viaggio con David Foster Wallace di David Lipski, cronaca degli ultimi giorni del tour di presentazione negli Stati Uniti di Infinite Jest. 1996, lo scrittore David Foster Wallace concede a David Lipski di Rolling Stone un’intervista di cinque giorni. Lipski non si occupa solo di giornalismo ma anche di narrativa e nutre una serie di pregiudizi ideologici sull’autore americano. La convivenza tra i due trasporta lo spettatore nel mondo privato di Wallace, quanto più distante possibile dall’idea di scrittore maledetto in preda ad una vita dissoluta. Anche se una serie di incertezze Wallace le portava con sé: al punto tale da suicidarsi nel 2008. The End of the Tour è un viaggio in luoghi intimi che stentiamo ad abbandonare dopo le due ore del lungometraggio, una scoperta del lato più umano di sé, un dialogo, fatto di botte e risposte, sulla vita e sulla cultura americana, sulle dipendenze e le manie di Wallace, sulle sue debolezze e fragilità. Non perdetevi questo tiepido omaggio che appartiene alla migliore scuola indipendente americana.
Passiamo adesso alle note dolenti. Medaglia d’oro a Freeheld di Peter Sollett. Ellen Page produce il solito drammone sull’accoppiata omosessualità-tumore con l’intuibile obiettivo dell’Oscar. Schematico e di stampo televisivo, Freeheld è un film profondamente onesto ma sempliciotto. La denuncia è palese ma ingenua e lo stesso argomento principale (il vero volto della borghesia americana) è attempato. Da scuola elementare. Sulla stessa scia si colloca Truth di James Vanderbilt. Film di apertura di questa edizione della Festa che può contare su Cate Blanchette e sul volto iconico di Robert Redford, l’unico in grado di strappare un applauso. Per il resto, il meccanismo di sviluppo della narrazione è un po’ arrugginito e per quanto dotato di buoni propositi, Truth non riesce ad abbandonare la mediocrità che lo caratterizza, rendendolo piatto e dimenticabile. Ma la vera delusione di questo Festival è diretta dal regista del primo episodio di Kung fu Panda. Ovviamente, si parla di Il piccolo principe. Adattare una delle storie più amate dai lettori di tutto il mondo non sarebbe stato, comunque, semplice. Osborne ci ha provato, ricorrendo ad una commistione di cgi e stop-motion ed inserendo una cornice che attualizzasse la storia di Antoine de Saint-Exupery. I temi inseriti sono tanti: l’alienazione del presente, la capacità di immaginare, il rapporto genitori figli, la costante tendenza umana a dimenticare e ad anestetizzare le proprie spinte vitali, la perdita dell’innocenza. Peccato che ogni vuoto venga riempito, che lo spettatore sia continuamente preso a pesci in faccia, che tutto quanto venga puntualmente spiegato, attingendo ad una serie di schematismi ampiamente evitabili. Insomma, tante le luci e le ombre su questa edizione e tanti i dubbi e gli interrogativi sulla prossima. Riuscirà un americano a salvare la Festa del Cinema di Roma?

Matteo Marescalco