In un mondo di porte chiuse, come recita il testo di una canzone del film, un modo per gustare un briciolo di libertà è affidarsi alla passione e all’arte. Questo mondo di porte chiuse, che l’esordiente Leyla Bouzid descrive in Appena apro gli occhi, è la Tunisia del 2010 sotto il governo semi-dittatoriale del presidente Ben Ali. Di lì a poco il malcontento popolare, soprattutto l’esasperazione dei giovani tunisini, porterà alla rivoluzione e all’esilio del presidente. Arte e passione per Farah (Baya Medhaffer) significano musica, quindi la possibilità di poter continuare ad esibirsi con la sua band.
Il suo sogno di una carriera artistica e la sua voglia di libertà, però, vengono continuamente ostacolati sia dagli opprimenti divieti imposti dalla madre (interpretata dall’attrice e cantante Ghalia Benali), sia dalla presenza invisibile della polizia che controlla tutti i movimenti della band.
La musica di Farah e dei suoi amici, infatti, rivela dietro versi evocativi un forte messaggio di protesta contro l’oppressione politica. La musica, quindi, è insieme alla giovane eroina, protagonista assoluta del racconto. “Tutti abbiamo problemi! Perché suoniamo altrimenti?” dice Borhène (Montassar Ayari), il chitarrista della band, di cui Farah è innamorata.
La musica come valvola di sfogo, un modo per dimenticare momentaneamente la vita che non ci piace e che siamo costretti a vivere in un paese che ci delude, ci imprigiona e non ci permette di realizzare le nostre aspirazioni. Leya Bouzid insiste molto su questa funzione di liberazione emozionale e mostra come lo stato abbia cercato in ogni modo di contrastare questo tipo di manifestazioni intuendo, forse, la rabbia sovversiva dalla quale scaturivano le canzoni cantate dai giovani. È un film di musica e silenzi. Il silenzio ha il compito di descrivere le emozioni trattenute e quello che viene taciuto. La regista si sofferma insistentemente sui gesti, sui volti, sui dettagli, sugli sguardi. Ci immerge, con uno stile documentaristico, nella realtà del paese: tutti guardano, spiano, nessuno parla, chiunque può rivelarsi un traditore. La porta chiusa, appunto, quella dietro la quale la madre di Farah vorrebbe celare la figlia, non per possessività ma per proteggerla dalla sua stessa incoscienza. In questa prospettiva la storia di Farah, del suo tentativo di affermarsi come individuo e delle sue tante ribellioni, rappresenta il preludio ad una liberazione collettiva o, almeno, ad un tentativo in questa direzione. Nelle sale dal 28 aprile.

Maria Rita Maltese