Il cinema ha reso evidente, nel corso della sua secolare evoluzione, la diversità dei possibili atteggiamenti da adottare nel confronti dell’immagine; brevemente si può parlare di una posizione attiva e di una passiva che lo spettatore sceglie – consapevolmente o meno. In particolare può darsi il caso in cui sia lo stesso regista a suggerire in una maniera più o meno esplicita, attraverso l’utilizzo della grammatica visiva, come chi guarda debba porsi nei confronti delle immagini: questo ovviamente non implica un rigido e aprioristico determinismo, ma contribuisce a dare l’idea di un potere decisionale forte da parte del regista.
In particolare, con l’affermarsi del paradigma moderno, ha cominciato a diffondersi una nuova consapevolezza – tanto in chi il cinema lo fa quanto in chi lo fruisce – circa la natura mediata delle immagini, che risultano in ultima analisi una formazione di compromesso concreata da tutti gli attori cognitivi dell’opera filmica. E’ proprio in questo contesto che nascono degli strumenti linguistici atti a coinvolgere lo spettatore nella fruizione, ponendo l’accento sulla discontinuità o sulla convenzionalità ontologica dei fotogrammi. Un ottimo esempio di questo rinnovato repertorio di strumenti è certamente fornito dall’interpellazione, un vero e proprio tradimento nei confronti del cinema classico.
Si tratta di un procedimento retorico per cui il mondo della diegesi si rivolge direttamente alla realtà fenomenica, con uno sguardo in camera e un preciso rivolgersi dei personaggi narrativi allo spettatore. In questo modo viene completamente meno l’illusione di realtà e la patina di credibilità che l’immagine aveva acquisito si arresta. È un’interruzione volontaria della continuità narrativa, che fa uscire il pubblico dalla sua passività e lo invita a riconsiderare il proprio ruolo verso il cinema. Ciò che Jean-Paul Belmondo fa in Fino all’ultimo respiro, quando guarda in camera e si rivolge a noi, è un atto profondamente eversivo, antihollywoodiano e che si ricollega a una logica primo novecentesca, quando – come nei film dei fratelli Lumière – il cinematografo era ancora una realtà aliena.
L’interiorizzazione del cinema come strumento narrante all’interno delle nostre vite ha portato a una standardizzazione dei canovacci filmici che, puntando in misura quasi esclusiva sulla narrazione e sull’immedesimazione con i personaggi, hanno ritenuto superfluo il coinvolgimento del pubblico. Si tratta di un processo che in realtà, salvo rare eccezioni (vengono in mente Shirin di Abbas Kiarostami, i film di Xavier Dolan etc.) è in atto ancora oggi, in misura forse ancora maggiore rispetto a quanto non accadesse in passato. A partire dagli anni Ottanta, infatti, il mondo della “Terza Hollywood” ha portato la spettacolarizzazione cinematografica a livelli altissimi (Matrix ne è un esempio, giusto per non citare l’introduzione della terza dimensione) e questo ha portato a un nuovo regresso del ruolo dello spettatore.
Forse quello che manca nel cinema del nostro tempo è l’idea di fondo che ha animato tanto i Lumière quanto Godard (per non parlare di sperimentazioni pure, come quelle di Kubelka), cioè la consapevolezza che l’opera d’arte filmica non è una realtà autoreferenziale da guardarsi con rispetto e devozione. Si dovrebbe abbandonare un’ottica museografica nei confronti del cinema e tentare di capire che siamo di fronte a un linguaggio mediale che nei suoi caratteri distintivi ha la partecipazione diretta e costante del pubblico, che non chiede altro che di poter essere guardato.
Giuseppe Previtali