L’angolo di Michele Anselmi

È il più lungo dei 25 film su James Bond, dura ben 163 minuti, ma è anche quello di cui si può dire meno, per non rovinare le sorprese, che sono tante, cruciali, perfino stordenti. Dopo un anno e mezzo di fermo causa pandemia, “No Time to Die” esce domani nelle sale italiane, in centinaia di copie, e vai a sapere se il quinto 007 by Daniel Craig, l’ultimo con l’attore britannico che nel 2006 reinventò fisicamente l’agente con licenza di uccidere, saprà riempire quei botteghini che ancora piangono sul fronte degli incassi. Senza rivelare nulla, perché sarebbe davvero criminale, può essere utile ricordare che uno dei titoli presi in esame per questo episodio, in uscita a sei anni da “Spectre”, suonava “A Reason to Die”. Poi i produttori devono aver pensato che suonasse magari di malaugurio o rivelasse troppo.
C’è una bella frase di Jack London che viene citata in sottofinale da “M”, l’elegante/cinico capo dei servizi segreti: “La funzione di un uomo è vivere, non esistere”. In questa prospettiva esistenziale si può andare a vedere “No Time to Die”, il primo 007 affidato a un cineasta americano, quel Cary Joji Fukunaga, classe 1977, che si fece conoscere con la serie “True Detective” e fu in concorso a Venezia con “Beast of No Nation”.
S’è molto favoleggiato attorno ai 150 milioni di dollari che Barbara Broccoli avrebbe sborsato per convincere Craig, deciso a chiuderla dopo il quarto capitolo venuto maluccio, a salire di nuovo sulla gloriosa Aston Martin. Un’offerta alla quale era difficile dire di no; anche se l’attore sembra prendere molto sul serio questo malinconico e romantico canto del cigno, sapendo che con “No Time to Die” oggettivamente si chiude un’epoca. Poi, s’intende, alla Universal troveranno modo di riaprirla, e difficilmente sarà una donna a prendere il posto di Bond, benché qui ci sia una 007 nera chiamata temporaneamente a sostituire il titolare, ritiratosi a pescare nel paradiso giamaicano.
Naturalmente la pensione di Bond dura poco: infatti l’amico storico della Cia, Felix Leiter, gli chiede aiuto e da lì in poi saranno di nuovo fuochi d’artificio; anche “M”, pur a malincuore, dovrà richiamarlo in servizio per dare la caccia a un soave e squinternato “villain” con la faccia rovinata, tal Lyutsifer Safin, impadronitosi di un’arma perfetta creata proprio in un laboratorio scientifico britannico. Trattasi del segretissimo “progetto Heracles” e c’è di mezzo il Dna, come del resto subito annunciano graficamente i titoli di testa con la canzone di Billie Eilish.
Curiosamente, prima di arrivare al presente, “No Time to Die” infila due antefatti di seguito, il secondo dei quali ambientato tra i sassi di Matera, lì dove riposa Vesper Lynd, che fu amatissima da 007 ai tempi di “Casinò Royale” e poi morì. Bond è in vacanza da quelle parti con la sua nuova fiamma, la psicologa Madeleine Swann, pure lei con un passato doloroso alle spalle; ciascuno dei due vorrebbe dimenticare, ma l’arcicattivo Blofeld ha già mobilitato i suoi per rovinare la luna di miele ai piccioncini.
Confesso che nella prima ora di film mi sono un po’ perso, non solo perché frastornato dalle sparatorie continue, anche un po’ inutili; non risulta nemmeno chiaro, nonostante le implicazioni fortemente metaforiche, la faccenda del Dna alterato, ma d’altro canto Hitchcock ci ha insegnato l’arte del “MacGuffin”, cioè a non fornire troppe spiegazioni tecnico-scientifiche rispetto al pericolo in corso.
“No Time to Die” mi sembra più interessante e riuscito sull’altro versante, che è quello dei sentimenti. Anche il Bond di Craig, così muscolare, tosto e implacabile, sta invecchiando, il suo “machismo” suonerebbe anacronistico in tempi di #MeToo, infatti nella storia entra in gioco il “fattore umano”, cioè il tenero rapporto che lo lega a Madeleine Swann (nome e cognome alquanto proustiani), sempre in bilico tra dedizione e sospetto. Sono i momenti più belli, anche spiazzanti, nei quali Craig recita, non solo spara e ammazza, sapendo di avere di fronte un’attrice coi fiochi come la francese Léa Seydoux. Quanto all’antagonista, incarnato da Rami Malek, che fu Freddie Mercury al cinema, una certa giapponeseria, tra ambienti, maschere e movenze, avvolge la sua “calma” vendetta, in linea con i requisiti dei nuovi cattivi anti-Bond.
Sui titoli di coda passa la suadente “We Have All The Time In The World” cantata da Louis Armstrong. Un titolo di sicuro non scelto a caso dal regista e dai tre sceneggiatori.

Michele Anselmi