Tra i registi che si muovono nell’ambito del cinema americano contemporaneo, Joel ed Ethan Coen appaiono un po’ come un unicum. I due fratelli del Minnesota, dal debutto del 1984 con Blood Simple fino a Ave, Cesare!, nelle sale dal 10 marzo, hanno attraversato tutti i generi, demistificandoli e rielaborandoli attraverso il loro punto di vista, mantenendo costante la sottile ironia e una tendenza al parossismo da renderli unici.
Distaccandosi dai toni più drammatici di A proposito di Davis, i Coen realizzano il loro carillon definitivo, un divertissement per palati fini che offre una galleria di personaggi tanto strambi quanto variegati. Collante delle differenti storie che vengono portate in scena nella grande Hollywood degli anni Cinquanta è Eddie Mannix, impiegato nei Capitol Studios con il compito di mettere a tacere gli scandali in cui precipitano gli attori. Tra loro, Baird Whitlock, protagonista di un costoso peplum, rapito da un gruppo di comunisti capitanato da Herbert Marcuse, Laurence Laurentz, produttore alle prese con un attore cane ed, infine, Dee Anna Moran, diva che deve camuffare la propria gravidanza fuori dal matrimonio. Mannix, quindi, si trova ad essere protagonista di un lungo calvario, all’ombra del grande Perdente Redentore, nella più tipica tradizione dei Coen.
In questa giostra metacinematografica, i Coen omaggiano il versante artigianale del fare cinema, senza mai precipitare in una smaccata idolatria. Sanciscono il primato della loro passione su etica, filosofia, economia e religione, demistificandola e prendendola per i fondelli. E non risparmiano nessuno. Ogni singolo personaggio che appare in Ave, Cesare! è una maschera che sta, sempre, per qualcos’altro. Eddie Mannix, come molti altri personaggi creati dai due fratelli registi, è un semplice Cristo, un vinto che vaga nei luoghi della macchina creatrice dei sogni, provando ad amministrare le innumerevoli scaramucce degli addetti ai lavori. Il suo è un ruolo da pastore e da grande garante che tiene salda e coesa una narrazione altrimenti caratterizzata da scene madri sconnesse tra loro. Nel suo discorso finale al divo svampito, interpretato da un George Clooney sempre al meglio con i Coen, emerge tutto l’amore dei due fratelli per il Cinema, religione estrema. Ma anche giocattolo da smontare e rimontare. Minestra da scaldare, a cui aggiungere innumerevoli altri ingredienti e sapori per raggiungere la consistenza perfetta che anima i loro pastiche, anche quelli di secondo piano. Ed, infine, tempio in cui rinchiudersi e pregare in estasi. Con un’unica, costante, consapevolezza. Quella dell’esistenza di un burattinaio (umano) che muove i fili delle sue creature, vittime impotenti di Caso e Destino.
Matteo Marescalco