L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
D’accordo, sono i film le vere star della Mostra del cinema di Venezia, non bisogna parlare solo di divi e attoroni, ma c’è modo e modo di presentare il menù. Alberto Barbera, sotto lo sguardo paziente del presidente della Biennale Paolo Baratta, ha scelto, diciamolo, il più barboso: quasi un’ora e mezza di discorso, elencando i titoli in programma uno per uno, cioè 71, partendo dalle “proiezioni speciali” per arrivare, solo dopo mezzogiorno, al concorso.
“So che siete stanchi, è passato qualche tempo” ha detto il direttore verso la mezza, a quel punto i cronisti, per buona parte del tempo alle prese con cellulari e computer, non avendo ricevuto in anticipo la cartella stampa come succedeva gli anni scorsi, si sono prodotti in tre-quattro domande di rito. Poi via di corsa verso il buffet, all’ingresso del multiplex Cinema Moderno, scelto quest’anno al posto del lussuoso hotel di via Veneto dove prima si officiava il rito.
E pensare che tutto ruotava attorno all’idea di creare un po’ di suspense, anche per ravvivare il clima, benché molto dei titoli più gustosi fossero già stati annunciati nelle anticipazioni stampa. Per dire, noi di Cinemonitor ci avevamo preso con la composizione della pattuglia tricolore in competizione. Quattro film su 21, a ribadire che il cinema italiano sta bene, cresce e lotta insieme a noi, così almeno suggerisce Barbera, ricordando che per la prima volta, dopo parecchi anni, “quantità e qualità sono andate di pari passo”, al punto da far parlare di una possibile “nouvelle vague”.
I titoli nostrani li avete già letti qui: sono “The Leisure Seeker” (in Italia uscirà come “Ella & John”) di Paolo Virzì, “Ammore e malavita” dei Manetti Bros, “Una famiglia” di Sebastiano Riso e “Hannah” (ex “The Whale”) di Andrea Pallaoro. “Quattro modelli antitetici di film. Del resto, non siamo alla ricerca di capolavori, ma di quanto si muove di nuovo e diverso nel cinema italiano” ha aggiunto Barbera. Però, diciamolo, se il capolavoro c’è, non guasta.
Sono 32, tra produzioni nazionali e coproduzioni, i film che battono bandiera italiana, non molti di più dei 30 francesi; quasi un ponte di pace tra le due cinematografie mentre Macron e Gentiloni si guardano in cagnesco e fanno, soprattutto il primo, la voce grossa su Libia e cantieri navali.
La 74esima edizione si svolgerà dal 30 agosto al 9 settembre. A inaugurare, ma già si sapeva, l’americano “Downsizing” di Alexander Payne con Matt Damon e Christoph Waltz, mentre chiuderà, fuori concorso, il giapponese “Outrage Coda” di Kitano Takeshi (ora pare bisogna scrivere così il nome). In mezzo cinema di ogni genere e formato: lunghi, corti e mediometraggi, documentari, serie tv, un po’ di Netflix che non guasta, ritratti, omaggi, ripescaggi, classici vari, due film particolarmente violenti non raccomandabili agli animi sensibili, anche una nuova sezione competitiva intitolata “Venice Virtual Reality”. A guidare la giuria è stata chiamata l’attrice americana Annette Bening, mentre i Leoni d’oro alla carriera andranno a Jane Fonda e Robert Redford, che per l’occasione presentano il loro “Our Souls at Night” tratto dal romanzo di Kent Haruf edito in Italia col titolo “Le nostre anime di notte” (bello, toccante e veloce da leggere).
Chi c’è in concorso oltre ai quattro italiani? Facciamo qualche titolo: gli americani “Mother!” di Darren Aronofsky, un habitué della Mostra dai tempi di Marco Müller, e “Suburbicon” di George Clooney; i francesi “La Villa” di Robert Guédiguian e “Mektoub, My Love: Canto uno” di Abdellatif Kechiche; gli inglesi “Lean on Pete” di Andrew Haigh e “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh; l’australiano “Sweet Country” diretto dal regista aborigeno Warwick Thornton; l’israeliano “Foxtrot” di Samuel Maoz, eccetera. E comunque fa piacere che il concorso non sia giocato dai soliti noti: ben 15 registi su 21 sono in gara a Venezia per la prima volta. A chi gli chiede perché non ci siano titoli russi o sudamericani, Barbera risponde giustamente che “i film sono prodotti stagionali”. Traduzione: molti non erano pronti, altri sono stati scartati perché non ritenuti all’altezza, alcuni non sono arrivati proprio per ragioni produttive (come, ad esempio, il ruvido western “Hostiles” di Scott Cooper, protagonista Christian Bale).
Gli italiani, come si diceva, sono un po’ dappertutto, modello prezzemolo. In Orizzonti compaiono, ad esempio, “Il signor Rotpeter” di Antonietta De Lillo, “Il colore nascosto delle cose” di Silvio Soldini e “Diva!” di Francesco Patierno. E per molti versi bisogna ormai considerare italiano, anche se non parla una parola di idioma nostrano pur vivendo qui da anni, Abel Ferrara, che porta il suo documentario di impronta multietnica “Piazza Vittorio”. Il sottoscritto abita dalle parti di piazza Vittorio, a Roma: francamente c’è da temere il peggio.
Michele Anselmi