Zack Snyder in questo capitolo della sua personale saga DC Comics ammette l’assurdità di uno scontro fra icone del cinema e del fumetto quali Batman e Superman. Tuttavia ha preso in modo legittimo idee effettivamente provenienti dal graphic novel di Miller Il ritorno del Cavaliere Oscuro, dove i due si scontrano sul serio, in modo da mettere in pratica la sua verve registica roboante e ludica, sovvertendone i pilastri e capovolgendo il discorso del precedente L’uomo d’acciaio. Così l’incipit visionario, particolarmente riuscito, diventa montaggio intellettuale fra ricordi della morte dei genitori Wayne ed immagini oniriche che ritraggono una caduta di Bruce nella grotta dei pipistrelli, i quali investendolo nel loro vorticoso volo lo innalzano con una delle perle della collana della madre in una mano. Questi topoi visivi, oltre a narrare le origini di Batman come fa il fumetto, sono un compendio perfetto dell’elaborazione luttuosa da parte di Bruce, il quale nonostante l’età ormai matura rimane irrisolto e furibondo verso Gotham e i suoi criminali. La frantumazione della collana di perle della madre Martha da parte di una pistola e la caduta psicofisica di Bruce diventano così un’enfasi di dettagli scenici in slow motion e una sequenza realizzata in modo encomiabile.
Nel presente post-bellico causato da Superman dopo lo scontro col Generale Zod, la rabbia di Bruce viene incanalata nell’enormità fisica del cupo Ben Affleck, che dà corpo e agilità ad un Batman che non ha niente da invidiare a quello da un quintale di Henry Cavill. Lo scontro con la sua nemesi kryptoniana non può che essere quello fra due bambini troppo cresciuti, furenti e sperduti, entrambi orfani dei genitori biologici: Bat e Kal-El torreggiano gli uni sugli altri ciecamente con occhi di fuoco e di ghiaccio e, curiosamente, entrambi guardano ai propri genitori come ultimo baluardo di giustizia. Fino a deviare rotta, in una battaglia finale contro Doomsday, mostro che li renderà alleati, uniti insieme a quella mamma sempiterna che è Wonder woman.
I sogni deliranti e ambigui di Bruce, tanti se ne contano nel film, sono pieni di insidie e minacce che poi si ripresentano dal vivo, facendo sollevare mille domande che forse troveranno risposta nei prossimi capitoli. Ciò che importa davvero a Snyder è realizzare la sua epopea situata in questo calderone di cultura contemporanea e cinematica: così Metropolis/Gotham si mescolano a scenari di deflagrazione urbana al Campidoglio e al Black Zero (versione del ground zero newyorchese) e si citano film a mani basse. Partendo innanzitutto da Excalibur, passando per il valzer di Eyes Wide Shut e il monolite di 2001 – Odissea nello spazio, per finire con l’abominio Doomsday, figura che riprende i temi di Frankenstein sposandosi a creature cinematografiche come Godzilla e King Kong. Superman diventa un Cristo che muore e risorge, flagellato dai media e dalla senatrice Finch (Holly Hunter), che sentenzia in tv: “Dio esiste, è fra noi e può ammazzarci tutti”. Ma Superman, nello scontro deistico con l’umanità, trova la sua vera nemesi in Luthor piuttosto che in Batman. Lo scienziato manipolatore di Jesse Eisenberg, nel suo pilotare lo scontro forzato fra Superman e Batman sin dall’inizio, si palesa come una figura simil-Joker fragile e molesta, ma comunque decisiva e dalle argomentazioni filosofiche pugnaci.
Volendo anche servire da prologo per i successivi film, che dovrebbero trattare la Justice League – qui introdotta brevemente nei suoi pezzi mancanti (Flash, Aquaman, Cyborg) –, Batman v Superman: Dawn of Justice affascina, ma non delinea sufficientemente bene tutti i suoi elementi e attori di talento come Jeremy Irons, Holly Hunter e Amy Adams, alla fine, sembrano sacrificati. Forse troppa carne al fuoco, oppure il Director’s cut di tre ore, a fronte delle due e mezza della versione theatrical, toglierà ogni dubbio.
Furio Spinosi