In uno squallido appartamento nel quartiere più degradato di una città vive un uomo qualunque, non particolarmente brillante, ansioso e solo. “Beau ha paura” ci fa entrare nella sua mente, in un viaggio interiore, anzi piuttosto una lunga odissea, che assume tinte inquietanti. E che esplora una tematica vecchia quanto il mondo: il rapporto edipico tra un figlio e sua madre. Il regista Ari Aster, al suo terzo lungometraggio, esce per la prima volta dal genere horror dei suoi precedenti lavori (“Hereditary”, “Midsommar”), cimentandosi in un’opera ambiziosa, meno commerciale e meno inquadrabile in un genere definito. L’uomo qualunque è il protagonista Beau (Joaquin Phoenix), e si sta preparando per fare visita a sua madre (Patti LuPone) che abita lontano e non vede da molto tempo, ma è stranamente agitato all’idea. Il giorno della partenza, però, è vittima di una serie di imprevisti, e non riesce a prendere l’aereo come aveva programmato. La mattina successiva riceve una misteriosa chiamata che gli comunica che sua madre è stata trovata senza vita nella sua casa. Inizia così il viaggio di Beau per raggiungere l’abitazione materna e partecipare al funerale, ma anche qui, come un moderno Ulisse, il suo percorso viene ostacolato da un susseguirsi di eventi che lo allontanano dalla sua meta. E così non riesce a prenotare un volo, è vittima di un accoltellamento da parte di un criminale di quartiere, è costretto ad una convalescenza a casa di una coppia di coniugi che ha deciso di prendersi cura di lui. In questa prima parte del film il viaggio è fisico, il protagonista si sposta nello spazio in balia degli eventi, ai quali non riesce a reagire a causa della sua debole personalità. La tensione è qui ben costruita, anche grazie alla colonna sonora, e lo spettatore si chiede se quest’uomo sfortunato riuscirà mai ad arrivare a destinazione. A metà film, però, il registro cambia, ed il viaggio da fisico diventa mentale, ed entriamo nella testa di Beau. Attraverso flashback del passato, incubi, realtà alternative, scenari metaforici, viene ripercorso il rapporto morboso che il protagonista ha con una madre controllante, tiranna, che lo giudica sempre in modo negativo. E che lo ha portato a divenire un adulto insicuro e represso. La narrazione qui si perde un po’, diventa difficile stare dietro al flusso di pensieri del protagonista, tanto che ad un certo punto non si capisce più cosa sia reale e cosa no, cosa stia accadendo davvero e cosa sia simbolo, cosa abbia un significato più profondo o cosa sia stato messo lì un po’ per caso. Certo, si tratta di un mind-game film, quindi una certa complessità narrativa c’è da aspettarsela. Qui però c’è una sovrabbondanza di trame, di dettagli prolissi e ripetitivi, come se la divisione dei tempi non fosse stata ben pensata. Il risultato è che la storia di Beau perde d’intensità emotiva, scivolando a volte nel ridicolo: un vero peccato. Il coraggio di Ari Aster nel realizzare un film simile è da ammirare, ma dei suoi tre lavori questo è probabilmente il meno riuscito; il giovane regista ha però tutte le carte in regola per fare di meglio in futuro.
Martina Genovese