L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per il Secolo XIX

Per fortuna che c’è Marco Bellocchio. Le quotazioni della compagine italiana si rialzano un po’ con l’arrivo in gara di “Sangue del mio sangue”, da oggi anche nelle sale con 01-Raicinema. Splendido 75enne non più in vena di rivoluzione ma sempre anticlericale, il cineasta piacentino ha già girato un nuovo film, “Fai bei sogni”, dal best-seller di Massimo Gramellini. E intanto accompagna al Lido questo piccolo film in famiglia, realizzato nella natìa Bobbio, Val Trebbia, dove torna sempre più volentieri a organizzare un piccolo festivali. “Sangue del mio sangue” incrocia legami e dolori autobiografici, temi cari, volti e cognomi consueti, in una sorta di affettuosa resa dei conti. Sotto forma di racconto storico seicentesco, il regista parla di sé, dell’amore, della rinuncia, della fragilità degli uomini, dell’eterno femminino di Goethe, con un inatteso ritorno al presente, dai sapori satirici alla Gogol, per dirci di «un’Italia paesana garantita, protetta dal sistema consociativo e corruttivo di partiti e sindacati, che la globalizzazione sta radicalmente trasformando (non si capisce se in meglio o peggio)».

Del resto, con l’età si torna quasi sempre a casa, per nostalgia, rimpianto, acquietata saggezza. «Io da Bobbio me ne sono andato, come il Moraldo di Fellini, se fossi rimasto sarebbe diventata una prigione» confessa Bellocchio. In realtà la prigione di Bobbio gli è cara, eccome. Tanto è vero che, in una battuta emblematica, sentiamo dire: «Bobbio è il mondo». Un microcosmo nel quale intrecciare, in una sorta di “2 film 2”, Inquisizione e Internet, torture e modernità. Cast illustre, zeppo di parenti e amici: Pier Giorgio Bellocchio ed Elena Bellocchio, figli del regista, il fratello Alberto Bellocchio, la compagna Francesca Calvelli, e poi Lidiya Liberman, Filippo Timi, Alba Rohrwacher, Roberto Herlitzka, Toni Bertorelli, Ivan Franek, Fausto Russo Alesi.
La storia? Suor Benedetta, dalla venustà squassante e tentatrice, viene imprigionata in un convento per aver sedotto il sacerdote Fabrizio, morto suicida e sepolto in terra sconsacrata. Il fratello-gemello Federico, uomo d’armi, si finge prete per indurla a confessare. Sottoposta alle prove decisive dell’acqua, delle lacrime e del fuoco, che dovrebbero certificare il patto col demonio, la donna dimostra di non essere una strega, solo una donna innamorata del suo primo confessore, e tuttavia sarà rinchiusa in perpetuo tra quelle mura. Trent’anni anni dopo Federico, invecchiato cardinale, torna a Bobbio per farla “smurare”: una rivelazione lo fulminerà…
Bellocchio adotta i toni della fiaba, pure sensuale e maliziosa, in questo primo capitolo all’insegna di un minimalismo mai poveristico, denso, pittorico. Mentre l’apologo si fa buffo, eccentrico, colorato, nel salto ai giorni nostri: un altro Federico, sedicente ispettore regionale, si introduce in quei locali medievali, ormai abbandonati, senza immaginare che lì si nasconda un macilento Conte intenerito dalle fanciulle in erba e con qualche problema ai denti. Come un Dracula insensibile al sangue fresco, l’aristocratico pratica “il principio vampiresco isolazionista”, detesta Facebook e Twitter, sfotte «questa mania di mettere tutto in piazza e di scambiarsi cazzate», ripudia la modernità chiassosa, la giustizia forcaiola, l’ossessione delle fatture fiscali… E qui è Bellocchio a parlare, benché abbia le sembianze del più senile Roberto Herlitzka, vampiro intristito, sensibile alla bellezza muliebre e facile alla commozione nell’ascoltare “Torna a Sorrento”. Come è ancora lui il signorotto seicentesco, rabbioso e bello, che prova a interrogarsi sul suicidio del fratello. Bellocchio perse davvero il giovane Camillo.
Accolto da caldi applausi, “Sangue del mio sangue” è un film imperfetto, divagante, dalla drammaturgia esile, con qualche incongruità musicale (che c’entrano quei brani in inglese dei Metallica?); e tuttavia mostra l’inesausta vitalità di un regista capace di reinventarsi senza tradirsi, di resistere all’usura del tempo. Il senso di “Sangue del mio sangue”? «Il dominio assoluto della Chiesa cattolica nel Seicento si conclude con il dominio democristiano che ha garantito a Bobbio una relativo benessere, pur succhiando il sangue a una prospettiva di novità e cambiamento». Per Bellocchio, avrete capito, il vampiro è doroteo…

NON SONO SOLO PUPAZZI: “ANOMALISA” ANALIZZA LA FRUSTRAZIONE DELL’UOMO OCCIDENTALE

Si fa presto a dire che sono solo pupazzi, benché animati con la sofisticata tecnica stop-motion. Arriva in concorso l’americano “Anomalisa” del duo Charlie Kaufman & Duke Johnson e scopri quanta sottigliezza e complessità vivano in un’opera di puro artificio. «Potrebbe diventare il primo film d’animazione vietato ai minori a vincere l’Oscar» profetizza “The Guardian”. C’è del vero: per il realismo delle scene di sesso, la nudità inclemente dei personaggi, la ruvidezza emotiva di certi passaggi. Pupazzi per adulti, dunque, e bene ha fatto il direttore Barbera a prenderlo in gara, non solo come esercizio di stile ma come ritratto di una moderna nevrosi. Non a caso Kaufman ha scritto “Essere John Malkovich” e “Se mi lasci ti cancello”: le menti contorte, con annesso ramo di sciroccata frustrazione, sono il suo pane.
Michael Stone è un guru specializzato in libri sul “customer service”, cioè sulle tecniche psicologiche per vendere meglio i prodotti. Inglese, sposato con figli, l’uomo approda a Cincinnati per parlare ad un convegno sul tema. Ma è arrabbiato, frustrato, ulcerato. Dal lussuoso albergo prova a contattare un’antica fiamma e l’incontro va male. Finché non conosce una commessa volata proprio lì per ascoltarlo. Lisa si sente bruttina, insipida, anomala, non va a letto con un uomo da anni, ha la sindrome del brutto anatroccolo. Lui invece la trova bellissima, appunto un’Anomalisa (anomalia più Lisa). Finiscono a letto insieme, si amano di gusto, progettano di scappare insieme, ma già a colazione c’è qualcosa di lei che irrita il “divo”. Quanto durerà?
Sono pupazzi realistici, negli abiti e nei gesti, ma anche programmaticamente finti: maschi e femmine hanno facce uguali, parlano con la stessa voce dell’attore Tom Noonan; solo Stone e Lisa si distinguono, “doppiati” lui da David Thewlis e lei da Jennifer Jason Leigh. Il breve incontro è reso senza pudori, anche sul piano erotico, difficilmente star americane in carne e ossa avrebbero accettato un simile sfacciato realismo. Sta proprio qui la forza del film, ispirato a un testo di Francis Fregoli: nel farsi racconto di una solitudine aggressiva e metafora di una più generale condizione umana di instabilità. Alla fine non ti accorgi più nemmeno che siano pupazzi.
La pazzia vera esplode invece nel turco “Abluka”, appunto follia, del quarantenne Emin Alper, sempre in concorso. Deprimente e allucinato, il film immerge due fratelli in una fetida bidonville alla periferia di Istanbul: Kadir, appena uscito di prigione, finge di raccogliere rifiuti ma in realtà lavora per la polizia; Ahmet uccide cani randagi per conto del Comune. Fuori il terrorismo impazza, tra bombe, retate, diritti sospesi. E intanto i due cominciano a sbarellare, confondendo suoni, immaginando complotti. «Volevo raccontare come il sistema politico trasformi gli uomini semplici in parti del suo meccanismo violento, fornendo loro autorità e strumenti letali» dice il regista. Di sicuro, dopo averlo visto, non viene voglia di visitare la Turchia…
MI. AN.