L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Sarà vero? «La fama è la cugina zoccola del prestigio» sentiamo dire in “Birdman o le imprevedibili virtù dell’ignoranza” da un survoltato attore teatrale. In realtà, pur sentendosi strafigo, il giovanotto invidia lo stagionato Riggan Thomson, il quale, deciso a ricostruire la propria immagine d’artista dopo esser stato per tre volte al cinema il super-eroe volante Birdman, vuole mettere a scena a Broadway “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver.
Premiato ai Golden Globe e candidato a 9 premi Oscar, il nuovo film americano di Alejandro González Iñárritu, scelto dal direttore Alberto Barbera per inaugurare la 71ª Mostra di Venezia, è uno strano Ufo cinematografico. In patria ha incassato finora 33 milioni di dollari, non proprio un successo, ma è anche vero che è fatto di una pasta strana, che lievita secondo tempi non proprio prevedibili.
Il regista messicano, lanciato nel 2000 da “Amores perros”, è di quelli che deliziano i cinefili, anche quando azzeccano meno il tono, e non è questo il caso. Stravagante, sorprendente, pure parecchio estetizzante, Iñárritu (pronuncia: Ignarrìtu) si confronta qui con la commedia, benché alquanto nera e asprigna, usando il teatro per parlare di cinema e viceversa.
Teorizzava l’interessato a Venezia: «Come Don Chisciotte, non siamo altro che una ridicola commedia degli equivoci. Se il cinema è solo un mucchio di verità raccontato attraverso le bugie, oppure un mucchio di bugie raccontato con molte verità, questo film è la mia battaglia contro l’ego». Suona bene. E, per rendere più chiaro il concetto dentro una dimensione di birichina allegoria, ha ingaggiato Michael Keaton, che fu Batman dal successo planetario nei primi due film firmati da Tim Burton, per interpretare un po’ se stesso. Del resto, in inglese Birdman suona un po’ come Batman, e anche i costumi di latex non differiscono granché, a parte qualche piuma in più e il becco prominente. Non è un segreto che Keaton, dopo quella micidiale doppietta dei primi anni Novanta, abbia vissuto un ingiusto declino professionale a Hollywood. Questa è la sua resurrezione d’autore.
Quasi calvo, basso, asciutto nel fisico e con quel sorriso da impunito, l’attore confessa nelle interviste di non essere «inseguito dal fantasma di Batman, semmai dai normali problemi del presente»; a dire, insomma, che è stato al gioco dei riferimenti ma senza poi metterci tanto di sé. «Sembro un tacchino con la leucemia, ormai sono una risposta da Trivial Pursuit» si butta giù il personaggio in una scena, e ancora non sa che di lì a poco, per un disguido, finirà per farsi riprendere in mutande bianche dai passanti, subito rilanciato dai social network. Ma se il film funziona, a parte qualche finale di troppo, è perché Keaton affronta la prova impegnativa come una riscossa, un po’ come accade al suo depresso e tormentato Riggan con il testo di Carver.
«Tutti abbiamo un Birdman nella nostra vita» azzarda il regista messicano. Chissà. Di sicuro Riggan Thomson deve fare i conti ogni giorno col suo odiato/amato alter-ego. Ne sente la voce cavernosa in testa, riesce a fare yoga sospeso a mezz’aria, sposta gli oggetti e fulmina le lampadine con un gesto. Tutto frutto di fantasia, di suggestione, di ossessione. O forse no. E se davvero Riggan riuscisse a volare sopra New York, come il pennuto “hero”?
La tessitura, un po’ da “spogliarello morale” alla Albee, è complessa, scandita da pulsanti suoni di batteria, impaginata per virtuosistici piani-sequenza che pedinano i personaggi nei corridoi del St. James Theater. Si succedono scambi di battute al vetriolo, paranoie da attori, crisi di nervi, duelli al vetriolo con una critica pretenziosa, mentre, sulla falsa riga del testo di Carver, ci si prepara alla scena finale dello spettacolo ambientata in un motel. Ma la pistola che spara sarà davvero un’arma di scena?
“Birdman o le imprevedibili virtù dell’ignoranza” (il titolo si spiega vedendo il film) è nelle sale dal 5 febbraio distribuito dalla 20th Century Fox. A Venezia non beccò nulla. Eppure Iñárritu impagina un match che aggira i rischi della metafora facile sul dilemma tra fama e bravura, un po’ alla maniera di “Molière in bicicletta”, ma con piglio ben più surreale e fantasioso, accanendosi sul corpo di Keaton, sfottendo per nome e cognome le star specializzatesi in ruoli fumettistici, inclusi Michael Fassbender e Robert Downey Jr., con una perfidia speciale nei confronti di George Clooney, che sostituì proprio Keaton nel terzo “Batman”. In questo clima un po’ tra “Vanya sulla 42ª Strada” e “Rumori fuori scena”, tutti gli interpreti si adeguano al tono: Edward Norton è l’antagonista vanesio e irritante, Emma Stone la finto-cinica figlia di Riggan uscita dalla droga, Naomi Watts l’attrice fragile che non vuole fallire, Zack Galifianakis il manager stressato e omosex messo sotto torchio. «Dopo tanto “chili” messicano volevo prendermi una vacanza a base di dessert, far sorridere» precisa il regista. Non che ci sia poi così tanto da ridere, però rispetto a “Babel” siamo nel paradiso del divertimento.
Michele Anselmi