L’angolo di Michele Anselmi
Francamente si poteva trovare un titolo più facile da pronunciare in italiano per il nuovo film di Spike Lee, il suo 22esimo. L’originale “BlacKkKlansman” è un gioco di parole, nel senso che fotografa una sorta di paradosso, giocando graficamente con le tre famigerate K per raccontare la bizzarra vicenda, “una fottutissima storia vera” ironizza una scritta sui titoli di testa, di un poliziotto nero che riuscì nei primi anni Settanta a infiltrarsi nel Ku Klux Klan di Colorado Springs.
Sembra impossibile, e infatti il ventunenne afroamericano Ron Stallworth, correva il 1972 o giù di lì, dovette escogitare un trucco niente male per gabbare i razzisti patentati del Klan: al telefono parlò con puro accento bianco, stile “redneck”; una volta accettato dal capo locale, convinse un suo collega, il poliziotto ebreo “Flip” Zimmermann, a presentarsi alle famigerate riunioni del Kkk fingendo di essere Stallworth. Insomma un doppio agente “sotto copertura”. Fino a quando il Grand Wizard del Klan, l’azzimato David Duke di stanza giù in Louisiana, non decise di salire a Colorado Springs per consegnare personalmente la tessera di iscrizione alla giovane promessa.
Il vero Stallworth oggi ha 65 anni ed è in pensione. Su quell’esperienza ha scritto un libro di successo che Spike Lee, sempre all’erta sui temi della segregazione, ha trasformato in una commedia buffa e strafottente, alquanto macchiettistica, premiata a Cannes 2018. Adesso, da giovedì 27 settembre, “BlacKkKlansman” arriva nelle sale italiane e chissà come andrà: da noi non tira una bella aria in materia di integrazione, specie dopo il cosiddetto decreto Salvini, e d’altra parte Spike Lee non ha negato, anche di recente, una notevole antipatia nei confronti del capo leghista.
Tuttavia il regista americano, reduce da due film sfortunati come “Il sangue di Cristo” e “Chi-Raq”, mette forse troppa carne al fuoco in questo suo ritorno al cinema hollywoodiano. La strana indagine “undercover” di Stallworth, narrata con piglio divertito nella ricostruzione d’ambiente, s’intende senza perdere di vista l’abominio razzista, non basta a Spike Lee; il quale sembra voler usare quella storia per regolare qualche conto personale col cinema americano ufficiale, cioè “bianco”.
Non a caso, il film parte proprio con una celebre sequenza di “Via col vento” chiusa da una lacera bandiera confederata che garrisce ancora al vento; prosegue con un attacco diretto a “Nascita di una Nazione”, il classico muto di David W. Griffith del 1915 considerato in buona misura solo un film razzista volto a giustificare le azioni del Klan; finisce con un riferimento evidente, e per nulla affettuoso, a “Django” di Quentin Tarantino, forse il regista che Spike Lee odia di più. E naturalmente ce n’è per il Trump di “America First”, per Nixon in quei primi anni Settanta votato dai razzisti, più una coda dedicata ai cupi fatti di Charlottesville, Virginia, 12 agosto 2017, quando un’auto guidata da un fanatico “suprematista” investì un gruppo di pacifici manifestanti, facendo vittime e feriti. Una bandiera americana alla rovescia, in bianco e nero e con le stelle posizionate in basso, chiude il film, quasi a dirci un senso di vergogna e di resa.
Tutto torna per Spike Lee, anche se il regista lo preferisco quando frena lo slancio ideologico, come gli riuscì nello straordinario “Inside Man”, 2006. Ciò detto, “BlacKkKlansman” si vede anche volentieri: per come il regista gioca con l’aria del tempo, tra parrucche alla Angela Davis e slogan delle Black Panther, omaggi a “L’ultimo spettacolo” e note di “Oh Happy Day”; per come allestisce lo spiritoso gioco delle parti tra i due Stallworth, l’uno incarnato da John David Washington, l’altro da Adam Driver; anche per come ricostruisce al telefono la stangata ai danni dell’incredulo boss del Klan, David Duke, reso da Topher Grace (il doppiaggio non aiuta).
Il 91enne Harry Belafonte appare a sorpresa nei panni di un vecchio leader dei diritti civili che descrive con parole schiette, mentre i biechi razzisti apparecchiano i loro riti cretini e gongolano di fronte al film di Griffith, l’atroce linciaggio di un giovane nero, pugnalato, evirato e infine bruciato vivo, al quale assistette da ragazzo.
Michele Anselmi