L’angolo di Michele Anselmi per Cinemonitor
Carrozzato Peugeot e illuminato dal marchio Sony che rifulge da ogni dove, perfino da un vecchio juke-box, l’agente K, ovvero Ryan Gosling in cappottone di pelle verde sporco imbottito di pelliccia sintetica, è il nuovo “blade runner”, cioè un cacciatore di replicanti ribelli, quelli di vecchia generazione sfuggiti al Grande Blackout. Come informa il titolo, siamo nel 2049, cioè trent’anni dopo il piovoso e rugginoso 2019 raccontato dal primo “Blade Runner”, l’originale tratto da un romanzo di Philip K. Dick e diretto da Ridley Scott. Uscito nel 1982, il film subito diventò un classico della fantascienza “distopica” (bisogna chiamarla così, anche se non ho mai capito bene che cosa significhi).
K, che nell’incipit ha appena scovato un androide piuttosto manesco nascostosi da qualche parte nell’Extramondo per allevare vermi proteici, è un duro. Infatti smozzica battute del tipo: “Mi tengo a stomaco vuoto durante la parte complicata della giornata”. Ma noi sappiamo che dietro quello sguardo imperturbabile, da mercenario al soldo del Police Department di Los Angeles, batte un cuore infelice e solitario: basta vederlo appena rientra nel suo triste appartamento blindato, alle prese con una cangiante fanciulla virtuale.
Non saprei dire se questo molto atteso seguito di “Blade Runner” diretto dal canadese Denis Villeneuve sia più Asimov che Dick, insomma più Tarkovskij che Scott. So però che dura più di due ore e quaranta, compresi i titoli di coda, e che per il sottoscritto comincia parecchio dopo la metà, quando ricompare, invecchiato ma non domato, lesto a farsi i fatti suoi in un sontuoso albergo abbandonato, il mitico Rick Deckart incarnato da Harrison Ford (da noi sempre doppiato da Michele Gammino).
I due “blade runner” si prendono a cazzotti, mentre gli ologrammi iconici di Elvis Presley, Marilyn Monroe, Liberace e Frank Sinatra prendono corpo sullo sfondo, ma non ci vuole molto a capire che tra un po’ faranno comunella. Sennò che seguito sarebbe?
La storia, per quel poco che si deve svelare al fine di non rovinare la sorpresa allo spettatore, l’ha riassunta mirabilmente la collega Marianna Cappi su MyMovies.it. Così: “Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi ‘lavori in pelle’: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato”.
Quanto al film, costato 160 milioni di dollari, sontuoso e lento, assai prevedibile in qualche passaggio, fitto di citazioni letterarie, da “Fuoco pallido” di Nabokov a “L’isola del tesoro” di Stevenson, di strizzate d’occhio al modello originale, di straordinarie immagine firmate da Roger Deakins, di musiche costanti, di un Edipo cucinato in tutte le salse e di materni corpi femminili, un altro bravo collega, Akim Zejjari, ha sintetizzato benissimo su Facebook una sensazione prossima alla mia: “Un androide di nuova generazione. Impeccabile, liscio, docile e contemplativo. Bello per carità (a parte la sciatteria dei costumi), ma niente a che vedere con la malinconica orgia elettronica, l’eccesso Bauhaus e la tragedia esistenzialista del primo capitolo”.
Avrete capito che “Blade Runner 2049”, per quanto oggetto da mesi di astruserie cinefile e di dotte interpretazioni, non mi scalda neanche un po’, ma è pur vero che non faccio testa in materia. Sicché non fidatevi di queste righe. Naturalmente Villeneuve, che è un bravo regista, come sa chi ha visto “La donna che canta” o il più recente “Sicario”, non costruisce un “giocattolone” d’azione, la butta sul metafisico dolente, allude a un nuovo Messia, evoca la biblica Rachele, agita il dilemma tra “nato” e “creato” che attraversa come un filo rosso, diciamo filosofico, tutto il film. Infatti gli servono 163 minuti, mentre l’originale ne durava 116.
Michele Anselmi