La Mostra di Michele Anselmi / 13
C’era proprio bisogno di un altro film su Marilyn Monroe? Forse no, ma dipende dal risultato. L’anno scorso, qui al Lido, girò la stessa domanda a proposito di “Spencer” su Lady Diana: tra sbuffi e stroncature (preventive). Marilyn Monroe, al secolo Norma Jeane Mortenson Baker, morì il 4 agosto del 1962, a soli 36 anni, e non sono mancati ricordi e omaggi lo scorso mese. Ora c’è “Blonde”, il film di Andrew Dominik, prodotto da Netflix insieme alla società di Brad Pitt, tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates e interpretato dall’attrice cubana Ana de Armas.
Pur essendo tra i titoli in concorso più attesi della Mostra, “Blonde” è stato accolto in modo tiepido dai critici, ma vedrete che il pubblico applaudirà in Sala Grande. Di sicuro è arrivato qui al Lido già circonfuso da un’aura di capolavoro: per il nome del regista caro ai cinefili, per il cast messo insieme, anche per il punto di vista adottato nel ricostruire, in chiave non strettamente autobiografica, direi quasi psicoanalitica, la breve esistenza della diva.
“Non sono una star, sono solo una bionda” minimizza Marilyn nel film, pur essendo già famosa, venerata, finalmente pagata il giusto dai produttori. Ci piace, da sempre, vedere Marilyn come una creatura fragile e spezzata, una bomba sexy legata al Sogno americano e al suo rovescio in forma di incubo. Ma anche, forse, è un’immagine di comodo.
“Se avessi rispettato tutte le regole non sarei arrivata da nessuna parte” confessò infatti un giorno l’attrice; e certo il film mostra, anche con una certa audacia, la disinvoltura sessuale con la quale lei si fece strada a Hollywood, facendosi bionda e senza troppo ritrarsi di fronte alle iniziali pesanti attenzioni del produttore Zanuck.
Dominik la prende alla lontana, partendo dalla Los Angeles del 1933, per mostrare le pressioni terribili alle quale fu esposta l’undicenne Norma: figlia detestata dalla madre folle, abbandonata dal padre con baffetti alla Clark Gable, infine piazzata in orfanotrofio. S’intende che, sulla scorta del romanzo, il film mette al centro dell’indagine quasi psicoanalitica la maternità mai coronata: per Marilyn una ferita insanabile, sentendosi una figlia indesiderata e la donna più desiderata del mondo.
A eliminare la patina classica da bio-pic, Dominik alterna colore e bianco e nero (non si capisce bene con quale ratio però), indulge in sfocature facciali, immagini deformate e allucinazioni ricorrenti, procede per salti temporali. Eccola chiacchierata sui giornali scandalistici a causa del rapporto erotico a tre con i figli fessi di Charlie Chaplin ed Edward G. Robinson; eccola picchiata dal marito Joe DiMaggio per la celebrata scena col vestito bianco di “Quando la moglie è in vacanza”; eccola citare a sorpresa Cechov al futuro consorte Arthur Miller che la considerava solo una “dumb blonde”; eccola alle prese con uno squallido presidente Kennedy, steso nudo a letto mentre parla al telefono, che le chiede di “non fare la timida” nel masturbarlo (sarà andata proprio così?).
Il film dura 165 minuti, troppo, è assai divagante ma certo si apprezzano valori formali e ricostruzione d’ambiente, pure la prova degli attori: dalla protagonista Ana de Armas, bella, tenera e, per quanto possibile, abbastanza somigliante, a Bobby Cannavale, Adrian Brody e Julian Nicholson nei panni rispettivamente del manesco Di Maggio, della spaesato Miller e della madre sciroccata. La prospettiva di Dominik mi pare chiara: raccontare Marilyn “come polvere di una stella esplosa”, cioè per frammenti di cronaca, scene di film rifatte e immagini pop, provando a grattare la superficie del mito, scrutando sotto la pelle di quel corpo lattiginoso, così idealizzato. Lo si vedrà direttamente su Netflix dal 28 settembre, senza uscite al cinema.
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Due film iraniani su 23 in concorso alla Mostra rappresentano una scelta politica, anche perché da quelle parti il cinema non se la passa bene: censure, pressioni, addirittura registi incarcerati. In attesa che arrivi, quasi clandestinamente, “Gli orsi non esistono” di Jafar Panahi, il cineasta più vessato dal regime, è passato “Beyond the Wall”, ossia “Oltre il muro”, di Vahid Jalilvand, che poco o per nulla piacerà alle autorità di Teheran: per cosa racconta e come lo racconta. Il film è impegnativo, a tratti sgradevole, insomma non è una passeggiata di salute.
Relegato in un palazzo fatiscente e rugginoso, dal quale non esce mai, il quasi cieco Alì sta cercando di uccidersi per soffocamento, per farla finita e sentirsi libero; ma qualcuno bussa alla porta per comunicargli che la polizia sta cercando una donna in fuga, reduce da una manifestazione operaia repressa a manganellata. Non sa, Alì, che Leila s’è nascosta, proprio nel suo appartamento: ferita e scioccata, affetta da frequenti crisi epilettiche, col cellulare scarico e l’anima in pena perché non sa più nulla del figlio piccolo che era con lei alla protesta.
Il cieco e l’epilettica: quasi l’incontro di due disabilità, a loro modo simboliche, mentre l’edificio intero è perlustrato da sbirri maneschi o insinuanti. Ma Alì non sembra intimorito dalle minacce, come se conoscesse sin troppo bene bene chi ha davanti.
Non tutto è come sembra, in questa storia tesa e penosa che rende bene l’idea dell’inferno concentrazionario nel quale vivono molto iraniani; e bisogna riconoscere che il regista suggerisce allo spettatore attento qualche indizio, in modo da far combaciare, alla fine, le tessere del puzzle. I gesti faticosi di Alì e la paura di Leila si combinano alle immagini di quella manifestazione repressa nel sangue, e presto capiremo che la scansione temporale degli eventi è destinato ad essere sovvertito, che forse bisogna dotarsi di immaginazione per non soccombere alla violenza e al frastuono.
Navid Moahammdzadeh, non riesco nemmeno a scrivere il cognome, è una presenza fissa nel cinema di Jalivand, era anche nel precedente “Il dubbio – Un caso di coscienza”. A volte ricorda fisicamente il nostro Nino Manfredi: occhio alle sue trasformazioni fisiche nel film.
Michele Anselmi