La cosa più sconcertante di questo episodio di follia è la prima reazione degli spettatori. Era tale l’immedesimazione dell’attentatore con i personaggi del nuovo episodio di Batman che si stava proiettando – maschera antigas, mantello nero, armi in pugno – che credevano fosse un’invenzione pubblicitaria per il lancio del film stesso. Anche quando il folle ha cominciato a sparare, all’inizio gli spettatori pensavano fossero colpi a salve, parte di una nuova forma di spettacolo quadridimensionale. Pare che alcuni ragazzini all’inizio abbiano applaudito divertiti. Solo quando gli schizzi di sangue delle prime vittime hanno cominciato a tingere di rosso le poltrone e i volti dei vicini, si è capito che non era una trovata di Hollywood, ma una carneficina. Non vorrei essere tacciato di cinismo, ma questo ennesimo episodio di follia non mi stupisce più di tanto.
Proprio pochi mesi fa, mentre lavoravo alla postproduzione del mio ultimo film girato in America, per le vie di Washington mi ero imbattuto in una gang di bellicosi travestiti da eroi dei fumetti, intenti a scazzottarsi con una violenza inaudita. E non mi sarei stupito se qualcuno a un certo punto avesse tirato fuori una mitraglietta. Tant’è che me la sono data a gambe. Nello stesso periodo, avevo ritagliato una fotografia del New York Times, che raffigurava dei deliranti, autopromossi vigilantes di quartiere, una specie di ronda padana con mire ben più estreme. Anche loro avevano scelto di travestirsi con le facce degli eroi più nefasti, per incutere paura. Tra questi, uno si era vestito proprio come Bane, il supercattivo con la stessa maschera calzata dall’attentatore di Denver. Il curriculum di Bane è tutto un programma. Già il nome, che italianizzato diventa Flagello, promette spasmi a chi lo incontra. Dotato di una forza sovrumana grazie a uno steroide, Venom, che iniettato nelle vene fa di lui uno che se vede Rambo lo sfracella con un dito.
Il nuovo Batman non era ancora uscito e già le polemiche avvampavano. Soprattutto quelle politiche, perché i repubblicani di Mitt Romney, l’avversario di Obama, avevano lanciato una campagna contro la pellicola. Sostenendo che proprio Bane voleva essere una caricatura di Romney, la cui impresa principale si chiama Bain, ma si pronuncia tal quale Bane. Figurarsi adesso che c’è stata la strage di Denver! Se fate un giro per le testate made in Usa, giornali on line e blogger, vedrete che l’America è spaccata. Ci sono quelli che vogliono bandire i film alla Batman, inclusi quelli sui vampiri, quelli che puntano il dito contro la vendita facile di armi, quelli che vogliono togliere ai figli i videogiochi e infine quelli che chiamano in giudizio la nevrosi americana. Cerco al telefono qualche amico a Hollywood e trovo tutti preoccupati. Dare addosso al cinema e alla violenza dei media è ormai lo sport preferito. Sono certi che la strage di Denver si scaricherà contro gli studios, accusati di saper fabbricare solo mostri, vampiri, freaks, zombie e chi più ne ha più ne metta.
Ho appena ascoltato il discorso di Obama, impegnato a rasserenare la nazione. Ha chiamato in aiuto sociologi e psicologi per spiegare le origini del male e dei buchi neri nelle teste più fragili, visto che l’attentatore ha solo 24 anni. Faccio un giro di rapidi riscontri. Alberto Angelini, direttore di Eidos, una rivista che mixa l’analisi e il cinema, mi dice che questi “gesti criminali plateali, dove l’omicidio di massa è protagonista, non devono essere considerati come esplosioni impulsive di follia”. E aggiunge: “sono azioni lungamente ponderate e minuziosamente organizzate. Il fine è la morte e la spettacolarità. Ogni dettaglio è premeditato, soprattutto riguardo a ciò che il killer indossa, ovvero riguardo a ciò che gli altri vedranno di lui. La retrostante forma di pensiero, caratteristica di questi soggetti, è persecutoria e paranoidea”. Luca De Dominicis, mago dei videogiochi made in Italy dice: “negli anni ’70 e nei primi ’80 la ‘colpa’ era dell’heavy metal, la musica di Satana. Oggi è dei film violenti e dei videogames”. E si chiede: “un mondo epurato da ogni forma di narrativa di genere basterebbe a sanare di colpo tutte le persone con problemi psichici?”. Il filmblogger Marco Chiani ricorda “la profezia del Wes Craven di Scream. Con la tragedia di Denver il reale si confonde nel simulato”. Malde Vigneri, studiosa della psiche, mi risponde inorridita: “questo giovane folle attore, mettendo in scena una terribile meta realtà, sembra trascinarci nell’apoteosi di un rovesciamento dove il virtuale, the second life, diventa metafora vivente di un precipitare in una disperata alienazione”.
E’ così: l’attentatore di Denver si è creduto protagonista di un film tutto suo, tanto immedesimato nella parte da dover uccidere davvero. Magari pensava di far parte di un reality. Chiedo al re del box office italiano, Pietro Valsecchi (Che bella giornata, I soliti idioti), che ne pensa. “Il fatto che quest’uomo fosse vestito da Bane, il cattivo del film, dovrebbe essere rilevante? La violenza è ovunque attorno a noi perché fa parte della natura umana. Hitler ha ucciso milioni di persone, eppure non aveva mai letto Batman!”. Quest’ultima citazione mi fa venire in mente un profetico libro di Kracauer sul cinema tedesco. Analizzando le pellicole degli anni Venti, presagiva che qualcosa di orrendo stava per accadere. E infatti di lì a poco venne il nazismo. Il cinema, cari amici, non produce l’atroce. Lo racconta. Dunque smettiamola di dar la colpa al mondo dei media. E’ come accusare la stampa quando svela scomode verità. La violenza, anche la più estrema e la più spettacolare, vedi quella messa in scena a Denver, non sta nei fotogrammi. Sta nell’animo malato di troppa gente.