L’angolo di Michele Anselmi
“Dottor Falcone, noi dobbiamo decidere solo una cosa. Chi deve morire prima. Lei o io?” scandisce Tommaso Buscetta al magistrato barbuto che ha di fronte. Toccherà prima a Falcone, nel 1992; Buscetta lo seguirà, non per morte violenta, nel 2000. Raicinema-01 ha scelto il giorno giusto, ovvero il 27esimo anniversario della strage di Capaci, per far uscire nelle sale “Il traditore” di Marco Bellocchio (coproduce Beppe Caschetto). Purtroppo la triste ricorrenza del 23 maggio è stata sfregiata da polemiche varie: assenze, divergenze, puntualizzazioni. E anche il film ha innescato qualche malumore, tra i familiari della scorta di Falcone, proprio in virtù della data scelta per l’uscita, considerata quasi come un’offesa alla memoria.
Non è così. “Il traditore” è un film complesso ma per nulla compiacente o agiografico, “don Masino” non ne esce come un mito, semmai era lui a credersi tale; e anzi Bellocchio e i suoi sceneggiatori, che sono Francesco Piccolo, Ludovica Rampoldi e Valia Santella, dosano con molta cura materiale documentaristico, resoconti processuali, notazioni biografiche e libertà drammaturgiche, in modo che lo spettatore, alla fine dei 130 minuti, possa farsi un’idea personale di tutta la faccenda. Poi, magari, i “mafiologi” avranno qualcosa da ridire su questo o quel dettaglio, benché alla voce “consulenza” appaiano i nomi di due giornalisti molto esperti del ramo, cioè Francesco La Licata e Saverio Lodato.
A 79 anni Bellocchio si dimostra un autore moderno e duttile, capace di rinnovarsi, o perlomeno di adattare il proprio stile visivo, per certi versi unico, alle caratteristiche della storia da raccontare di volta in volta. Bene ha fatto il festival di Cannes a metterlo in concorso, e chissà che Pierfrancesco Favino non esca dalla kermesse con un riconoscimento. La sua prova è maiuscola e matura: per studio gestuale, immedesimazione fisica, accuratezza somatica, precisione vocale (Buscetta parla in portoghese, siciliano stretto e inglese).
Il film parte da lontano, dalla riunione che nel luglio 1980, in coincidenza con la festa di Santa Rosalia, avvenne nella casa al mare di Stefano Bontade. Avrebbe dovuto sancire la pace tra la vecchia mafia palermitana e l’arrembante cordata dei corleonesi, ma la tregua durò poco, perché Totò Riina stava per dare inizio alla mattanza per prendersi tutto. Buscetta, nel suo doppiopetto bianco da gagà, sta in disparte, essendo un semplice “soldato”, o così almeno gli piace dire; e tuttavia anche lui, abituato a vivere fastosamente a Rio De Janeiro con la sua terza moglie brasiliana sotto il nome di Roberto Felici, sa che finirà nel mirino del “capo dei capi”. Gli uccidono dodici familiari, inclusi due figli, proprio per farlo tornare in Sicilia e liquidarlo definitivamente; ma nel frattempo viene arrestato dalla polizia locale, torturato perché parli, infine, dopo uno strano tentativo di suicidio, estradato in Italia, il 15luglio 1984, dove l’attende il giudice Falcone. Sarà l’inizio di un rapporto curioso, sulle prime sospettoso: ma “don Masino”, sia pure secondo le sue regole di presunto “uomo d’onore”, ha deciso di vuotare il sacco su struttura, affari, ramificazioni e collusioni politiche di Cosa Nostra. Di lì a poco, anche grazie alle sue rivelazioni, comincerà il maxi-processo nell’aula bunker dell’Ucciardone.
Bellocchio, nella sua tumultuosa cine-ricostruzione, intreccia episodi cruciali e dettagli secondari, va avanti e indietro nel tempo risalendo fino all’affiliazione giovanile di Buscetta, mostra pure Andreotti in mutande dal sarto (l’attore è troppo magro, poco somigliante), non dimentica le note vanità del “traditore”, dedito a tingersi i capelli e a farsi ritoccare il viso dal chirurgo plastico, inscena i brindisi dei mafiosi dopo lo strabiliante attentato di Capaci.
Ma naturalmente il nucleo drammaturgico si concentra sullo scontro-confronto, quasi una sofisticata recita palermitana di fronte al giudice allibito, tra Buscetta e l’ex amico poi nemico giurato Pippo Calò. “Non sono un pentito” rivendica il mafioso vecchio stampo, sostenendo che i traditori sono gli altri, quelli che hanno preso il potere sparando anche ai bambini. Nondimeno qualcosa non torna, perché non si diventa “boss dei Due Mondi”, come obietta Falcone, senza sporcarsi davvero le mani.
Ne esce un film avvincente, un po’ alla Francesco Rosi, quindi affilato e documentato, senza tempi morti, giustamente orgoglioso della verità linguistica rivendicato sin dalla sequenza d’apertura (il dialetto è parte fondante della messa in scena), imperniato sulla pensosa “teatralità” di Buscetta.
Favino, prossimo Bettino Craxi in un film di Gianni Amelio, cambia acconciature, mette e toglie i baffi, ingrassa e dimagrisce, con l’aria di chi ha molto lavorato sul personaggio, per restituirne quel mix di carisma e rassegnazione, di “moralità” e ferocia, perché alla fine dei conti, occhio all’ultima scena preparata con cura durante il film, quello resta: un mafioso implacabile. Ma tutto il cast è ben scelto, da Luigi Lo Cascio (Contorno) a Fausto Russo Alesi (Falcone), da Fabrizio Ferracane (Calò) a Maria Fernanda Cândido (Cristina), solo per dirne quattro tra i tanti.
“Il traditore” a me pare un film allo stesso popolare e sofisticato, dunque consigliabile anche a chi – e ce ne saranno – sbotterà con la solita frase: “Ancora una storia di mafia?”. Sì, ancora una storia di mafia.
Michele Anselmi