La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (12)
Doveva chiamarsi “Capri-Batterie” il nuovo film di Mario Martone, in omaggio alle famose lampadine “alimentate” a limoni inventate nel 1985 dallo scomparso artista tedesco Joseph Beuys, che a Capri visse qualche tempo prima di morire. Quelle flebili fiammelle appaiono a un certo punto in una scena del film, ambientato nel 1914, s’intende non in forma di installazione artistica, ma come concreta utopia energetica, e di sicuro non sarà un caso se a maneggiarle è una specie di guru proto-hippy che si chiama Seybu, ossia un anagramma possibile di Beuys.
Martone lo conoscete: gli piace citare e mischiare le cose con piglio tra l’ erudito e il birichino; infatti, se non bastasse, il medesimo Seybu allude a un curioso artista tedesco che visse davvero da quelle parti, tal Karl Wilhelm Diefenbach, anche se morì nel 1913, cioè un anno prima della storia immaginata dal film, terzo titolo tricolore in concorso alla Mostra di Venezia. Forse il migliore del terzetto.
Pacifista, vegetariano, nudista, “teosofico”, omeopata e poligamo convinto, oltre che riconosciuto “maestro”, Diefenbach guidò anche una comunità di disinibiti giovanotti, maschi e femmine, perlopiù nordeuropei, molto in anticipo sui tempi; e proprio da lì parte “Capri-Revolution”, facendo dell’isola una sorta di magnete irresistibile per chiunque coltivasse ideali di libertà e giustizia (si vedono pure i futuri rivoluzionari russi).
Il 1914, esattamente come il 1913 del film ungherese “Napszálita” passato in gara qui a Venezia, non è scelto a caso: sta per scoppiare la Prima guerra mondiale, e “su quella montagna dolomitica precipitata nelle acque del Mediterraneo” (Martone dixit), la vita non è uguale per tutti, nonostante l’arrivo del’energia elettrica. La fiera pastorella Lucia pascola tra i dirupi sul mare le sue capre nere mentre il padre sta morendo, la madre non fiata e i due fratelli cercano di darla in sposa a un facoltoso vedovo del posto. Dalla terra ferma è arrivato il giovane medico Carlo, socialista, positivista e interventista, non insensibile alla bellezza ruvida di Lucia, che vorrebbe avviare a un lavoro da infermiera. E intanto gli adepti della Comune, irrisi e temuti dagli autoctoni in egual misura, ballano nudi al vento, si cibano solo di frutta e verdura, girano scalzi vestiti di bianco, compongono “world music” ante-litteram, praticano una specie di psicoanalisi dai risvolti allarmanti, ogni tanto si lasciano andare ad accoppiamenti multipli e dionisiaci alla luce della Luna. Sotto la guida, appunto, del cristologico Seybu, che non disdegna.
S’intende che sulle prime Lucia si fa catturare da quel mondo così diverso dal suo, ne condivide lo spirito ribelle e utopistico, mentre il dottore, pronto ad arruolarsi per combattere gli austro-ungarici, si confronta volentieri con il guru capellone sui temi della guerra, della scienza, del progresso, del profitto capitalistico, eccetera.
Schematizzando un po’: Lucia è il popolo che si emancipa e alla fine sceglie una propria strada, Seybu è l’hippy in odore di Sessantotto che incarna stimoli e contraddizioni, Carlo è la sinistra tradizionale, una specie di futuro Pci. Per sapere come vanno a finire le cose tra i tre bisogna però vedere il film, che uscirà il 13 dicembre con 01-Distribution (producono Indigo, Raicinema e Pathé).
Martone spiega che “Capri-Revolution” rappresenta la chiusura di un’ideale trilogia storica cominciata con “Noi credevamo” e proseguita con “Il giovane favoloso”. Magari è così, e certo il film, scritto dallo stesso regista con Ippolita di Majo, si presta a più letture. Martone sembra dirci, infatti, che le diverse opzioni ideologiche esposte dal racconto, se incapaci di confrontarsi e integrarsi, sono destinate al fallimento, anzi a una sorta di inaridimento. Poi c’è l’aspetto formale, sempre molto accurato, anche nella reinvenzione estetica degli abiti e delle acconciature o nell’uso delle musiche di gusto moderno. Così, tra una citazione di Fabrizia Ramondino e l’esplicito omaggio alle “batterie” di Beuys, il regista lega passato e presente senza stridori, magari con qualche sottolineatura di troppo nei dialoghi, ma valorizzando le prove dei tre bravi interpreti principali, che sono Marianna Fontana (una delle due gemelle di “Indivisibili), Reinout Scholten van Aschat e Antonio Folletto. Ad essere pignoli, i pubi e le ascelle femminili degli allegri comunardi appaiono un po’ troppo rasati per l’epoca, però nessuno è perfetto.
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La riscossa di una giovane donna, in questo caso non una pastorella caprese ma una galeotta irlandese, passa per le scene forti di “The Nightingale”, unico film in concorso diretto da una donna, l’australiana Jennifer Kent. Trattasi di “revenge movie”, insomma di una storia di vendetta al femminile, ma non pensate a “Kill Bill” o a “Il buio nell’anima”. Siamo nella Tasmania del 1825. Nella verdeggiante isola a sud dell’Australia, carcerati in semi-libertà provano a costruirsi una vita nella miseria più tetra, ma le “giubbe rosse” inglesi non vanno tanto per il sottile. Stupri, violenze, torture, impiccagioni sono all’ordine del giorno. Quando Clare, che ha appena partorito una bambina, viene violentata per l’ennesima volta da un bieco ufficiale britannico la tragedia rintocca a morto; la neonata e il marito della sventurata finiscono uccisi nella baracca, alla giovane donna, viva per miracolo, non rimane che una soluzione: vendicarsi.
Il film non va tanto per il sottile: l’efferatezza ottocentesca viene descritta senza filtri, la struttura picaresca è uno spunto per affiancare alla donna furente un aborigeno “civilizzato” assunto come guida, che porta impresse sulla pelle le stesse cicatrici. La caccia all’ufficiale stupratore e ai suoi due manutengoli sarà dura, dolorosa, irta di insidie, ma non inutile.
Se la metafora è chiara, Clare e Billy incarnano due minoranze oltraggiate che vincono la reciproca diffidenza e puniranno i soldati cattivi tra gli applausi dei cinefili, meno lineare e scontato è l’andamento quasi circolare che la tosta regista imprime alla sua storia di sopraffazione e vendetta. A mano a mano che ci si inoltra nella foresta, “The Nightingale” assume i tratti di un western metaforico, un po’ anni Settanta, quasi a far emergere il senso politico di una posta in gioco dal sapore universale. Clare è incarnata dall’italo-irlandese Aisling Franciosi: un volto che non si dimentica, anche tumefatto o insanguinato; quanto al titolo, esso allude alle doti canterine, appunto da usignolo, della sventurata ragazza.
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Ha poco da dire, invece, il cinese Zhang Yimou, che fu grande se non grandissimo all’epoca di “Non uno di meno” e ormai evita di confrontarsi col presente, preferendo rintanarsi nel cosiddetto genere wuxia. Messo opportunamente fuori concorso, “Ying” sembra più un forbito esercizio di stile che un film sentito. Costruito sul contrasto tra yin e yang, ossia tra nero e bianco, con tanto di diagramma “Taijitu” dipinto per terra, il kolossal gioca col concetto di “ombra”, cioè di sosia, naturalmente in una chiave epica.
Cina dei Tre Regni, tra il 220 e il 280 dopo Cristo. Pare che molti potenti dell’epoca si facessero sostituire da controfigure, per sottrarsi agli intrighi di palazzo e alle congiure mortali. Uno di questi sosia, diventato generale del Regno di Pei al posto del vero titolare Yu, decide di riprendersi la città di Ying e di sfidare il condottiero Yang. Ma il sovrano preferisce evitare lo spargimento di sangue, meglio far pace con un matrimonio combinato. Andrà diversamente.
Fotografia desaturata tendente al grigio (ma con inserzioni di rosso sangue), pioggia flagellante e continua, le solite capriole acrobatiche, il clangore delle spade, duelli coreografati, suggestivi ombrelli rotanti che sparano lame… Il film a me pare estetizzante e vuoto, pure noiosetto, ma le scene di battaglia sono prodigiose e gli effetti speciali fanno il resto.
Michele Anselmi