L’angolo di Michele Anselmi
In “Security”, il film di Peter Chelsom su Sky Cinema e Now da lunedì 7 giugno, spira un’aria fosca e sordida che ricorda a tratti “Il capitale umano” di Paolo Virzì. Solo che è girato molto peggio e non possiede quel respiro tragico/beffardo, sicché il paragone finisce qui. Ciò detto, anche “Security” trasporta in Italia un romanzo dell’americano Stephen Amidon, s’intende con parecchie libertà, confidando su una certa dimensione “universale” della vicenda, tra poliziesco cupo, vergogne di famiglia e metafore ammonitorie. Chelsom è il regista inglese di un successo pop come “Shall We Dance?”, ma il contesto linguistico nostrano, diciamo, gli va un po’ stretto, benché tra gli sceneggiatori compaiano i locali Michele Pellegrini, Amina Grenci e Silvio Muccino.
Dall’originaria Stoneleigh, cittadina elegante del New England, si passa alla toscana Forte dei Marmi, che non è più quella di “Sapore di mare” dei fratelli Vanzina: fuori stagione tutto cambia nelle località balneari, si sa, la “cartolina perfetta” può trasformarsi in incubo malato.
Lo “straniero” Roberto Santini gestisce tramite una fitta rete di telecamere il sistema di sicurezza che sorveglia la città toscana, specie i quartieri dei ricchi con ville sontuose. L’uomo è malinconico, stanco, sfibrato dall’insonnia che gli procura allucinazioni, pure incasinato sentimentalmente: la moglie Claudia mira a diventare sindaca grazie al sostegno di un felpato uomo d’affari e a una campagna tutta all’insegna della sicurezza, in chiave leghista; l’amante Elena ha un figlio tardo adolescente, Dario, assai inquieto, che beve, forse si droga, e frequenta strani giri. Tutto peggiora quando una bella ragazza, Maria, viene inquadrata da una telecamera non distante da una di quelle dimore esclusive: piena di lividi, con una clavicola lussata, in stato di shock. Chi è stato? Tutto sembra portare al padre della vittima, un ubriacone squinternato sul quale pesa ancora il sospetto di atti pedofili in luogo pubblico. Naturalmente Santini sente puzza di bruciato, il pestaggio nasce altrove, per motivi forse indicibili; e intanto l’uomo ha il suo bel daffare con la figlia irrequieta che se la fa con un insegnante quarantenne, bello e maledetto, alle prese col suo secondo romanzo che non viene.
Non direi che il modello sia “Twin Peaks” e nemmeno “I peccatori di Peyton”, anche se il film, lungo quasi due ore, arpeggia su quei temi: avidità, perversioni, menzogne, rancori, vendette, ipocrisie. Il tutto avvolto, sul piano visivo, nelle immagini in bianco e nero, digitali, a volte sgranate, immagazzinate dalle telecamere di sorveglianza piazzate dovunque. Insomma, l’ossessione del nostro tempo: controllare ed essere controllati.
Fotografia a parte, bella e suggestiva specie negli scorci panoramici del prologo promettente, colpisce la svogliatezza di Chesolm nel ricreare un mondo drammaturgicamente intonato al materiale umano evocato, nello scandire la suspense, alquanto decotta, nonostante le esche e le sottostorie intrecciate. È un rigurgito di scene madri, dialoghi survoltati, andirivieni pleonastici. Ne fanno le spese, direi, soprattutto gli attori, scelti pure con cura e immagino senza badare a spese: da Marco D’Amore a Tommaso Ragno, da Maya Sansa a Valeria Bilello, da Giulio Pranno a Ludovica Martino, da Fabrizio Bentivoglio a Silvio Muccino (ma perché si tocca sempre così tanto i capelli?). Tutti appaiono alquanto sopra le righe, non si capisce perché, anzi sì: per dare l’idea del marciume nevrotico che si annida sotto l’immagine rassicurante di quel paradiso d’élite.
Michele Anselmi