L’angolo di Michele Anselmi
Certo, può anche non piacere “Il Primo Re”, ma suggerirei di non ironizzare, magari rimpiangendo per snobismo i cosiddetti “sandaloni” dei primi anni Sessanta, tirando in ballo paragoni impossibili con “Romolo e Remo” di Sergio Corbucci o “Remo e Romolo. Storia di due figli di una lupa” di Castellacci & Pingitore, o rievocando il mitico strafalcione di Berlusconi, quando attribuì la fondazione di Roma a “Romolo e Remolo”. Il film di Matteo Rovere, nelle sale con 01-Distribution dal giovedì 31 gennaio, è un esperimento serio, impegnativo, costruita con cura, parlato in una sorta di proto-latino che pesca nelle lingue di ceppo indoeuropeo, realizzato con notevole coraggio produttivo dalla società “Grøenlandia”, essendo costato attorno agli 8 milioni di euro.
Dice Rovere, classe 1982, nelle interviste: “Era arrivato il momento di provare a calare lo spettatore nel Lazio dell’ottavo secolo a.C. tenendoci il più lontano possibile dall’estetica classica dei peplum” (lo scomparso Lino Micciché, a onor del vero, avrebbe detto “pepla” al plurale).
In effetti questo fa “Il Primo Re”, moltiplicando simboli e suggestioni, riflessioni sulla divinità e ricostruzioni storiche, cerchi sacri e segni degli dei, soprattutto puntando sull’elemento emotivo della “fratellanza” come radice oscura e dolorosa di un atto di fondazione, la città di Roma, destinato a scardinare gli equilibri del mondo sino ad allora conosciuto.
Echeggiano le narrazioni di Tito Livio, Ovidio e Plutarco, mischiate alle consulenze fornite dagli archeologici odierni dell’università di “Tor Vergata”; e poi c’è il cinema, a luce naturale, tra boschi minacciosi, paludi lutulente, fiumi che esondano tutto devastando, in un clima barbarico e tribale, di riti sanguinari, che forse deve qualcosa a modelli come “Apocalypto” di Mel Gibson o “Revenant” di Alejando González Iñárritu. E tuttavia Rovere non scopiazza, almeno così a me pare; semmai utilizza una certa potenza espressiva insita nell’epoca evocata sullo schermo, siamo nel 753 avanti Cristo, per mettere in scena le radici di un mito grandioso e crudele allo stesso tempo.
“Un Dio che può essere compreso non è un Dio” avverte all’inizio del film un pensiero dello scrittore britannico William Somerset Maugham (1874-1965); e certo la citazione può risultare spiazzante, data l’ambientazione, anche se strada facendo capiremo perché gli sceneggiatori Filippo Gravino, Francesca Manieri e lo stesso Rovere l’hanno messa in esergo. Nella vicenda umana ed epica di questi Romolo e Remo presto si affaccia, infatti, la presenza della divinità, attraverso il culto diffuso della “Triplice Dea”, il cui sacro fuoco è conservato dalla misteriosa Satnei, un po’ vestale e un po’ aruspice. Scampati per miracolo a una sorta di tsunami tiberino, i due pastori finiscono schiavi ad Albalonga e destinati a una specie di sacrificio notturno, se non fosse che lo scaltro Remo, ingaggiando la lotta col rassegnato “brether” (fratello) Romolo sotto lo sguardo dei vincitori, rovescia la situazione e si mette a capo della rivolta. Sembrerebbe lui, Remo, il capo carismatico, il condottiero destinato a unificare le tribù sparse, quindi a diventare il Primo Re, ma noi sappiamo che le cose andranno diversamente.
Mentre Romolo, trafitto all’anca nella battaglia, recupera faticosamente le forze, Remo sfida i Velienses, sottomette e terrorizza pacifici villaggi, urla “Saremo noi la paura”, ben sapendo quanto profetizza la vestale: “Dei due fratelli ne resterà uno”. Appunto Romolo, l’uomo saggio e lungimirante che non rifiuta il suo Dio.
“Tremate, questa è Roma!” è il grido-minaccia che risuona nell’epilogo, e lì la cine-narrazione si ferma, lasciando che un’animazione in forma di carta geografica illustri come nei secoli a venire si sarebbero allargati i confini dell’Impero romano.
Alle radici del mito, ma senza mostrare la mitica Lupa, appunto per mantenere il racconto su un piano di fosco realismo antropologico, tra pelli di pecore per riscaldarsi, carne di cervo mangiata cruda e utensili primitivi, Rovere conduce il suo film su territori poco frequentati dall’attuale cinema italiano (incluso l’uso dei sottotitoli). Il che gli varrà, come si diceva sopra, qualche sfottò. E tuttavia “Il Primo Re”, nel suo andamento meditabondo, ogni tanto interrotto da qualche scontro armato all’insegna di un feroce realismo, costituisce una boccata d’ossigeno, pure il tentativo, in buona misura riuscito, di smantellare la retorica diffusa del “ritorno ai generi” per provare invece a reinventare un mito “fondante”, la nascita di Roma, secondo uno sguardo mitopoietico: stilisticamente personale, culturalmente curioso, artisticamente inedito.
Non sorprenda che, sul manifesto, appaia, sotto la scritta del titolo, il capellone, muscoloso e barbuto Alessandro Borghi, che in realtà fa Remo: un po’ perché è l’attore più noto del gruppo, un po’ perché, nella prospettiva di Rovere, è lui il vero protagonista tragico della storia, l’eroe lucidamente folle che al fratello tutto sacrifica, anche se stesso, perché il destino possa compiersi. Alessio Lapice invece è Romolo, l’elemento presunto debole che riconosce al silenzio divino la forza unificante del fuoco; mentre Tania Garribba custodisce forse, anche nei tratti fisici e negli occhi bistrati, il mistero di una materna femminilità.
Se la fotografia di Daniele Ciprì è prodigiosa nel restituire il sapore arcaico e le coloriture livide di quelle remote contrade laziali, la musica, tra elettronica, sinfonica e percussiva, di Andrea Farri ogni tanto verrebbe proprio voglia di spegnerla.
Michele Anselmi