L’angolo di Michele Anselmi

Basterebbe questa battuta per fare di “Maigret” un film da vedere appena esce nelle sale, giovedì 15 settembre, targato Adler Entertainment. “Ci sono casi da vino bianco, casi da Calvados, casi da birra. Questo è un caso da vino bianco” scandisce il famoso commissario, stavolta incarnato da un espanso Gérard Depardieu. Diciamo la verità: ciascuno conserva una sua propria idea di Maigret. I francesi ricorderanno come l’hanno reso Pierre Renoir, Jean Gabin o Bruno Cremer, gli inglesi Charles Laughton e Michael Gambon, gli italiani Gino Cervi e, poco tempo fa, Sergio Castellitto. Depardieu è un monumento del cinema francese, dunque era destino che prima o poi si confrontasse con l’epico personaggio inventato dal belga Georges Simenon (1903-1989). Vale anche per il regista Patrice Leconte, ancora oggi uno dei più bravi sulla piazza transalpina, che pure s’era cimentato con Simenon, ma senza Maigret di mezzo, ai tempi di “L’insolito caso di Mr. Hire”.
Leggo in bell’articolo del critico Francesco Puma che l’attuale “Maigret” è tratto dal romanzo “Maigret e la giovane morta”, scritto in una settimana nel 1954 durante una sorta di esilio americano; risulta essere, per la precisione, il 45esimo libro incentrato sul mitico commissario (in tutto sono 75, più 28 racconti). Chissà se ne verrà fuori una cine-serie.
Nell’accostarsi a quell’icona poliziesca, Leconte, che firma la sceneggiatura con Jérôme Tonnerre, sceglie una cifra stilistica volutamente all’antica, di sapore malinconico e crepuscolare, un po’ minimalista; il tutto immerso in una luce plumbea, vagamente espressionista, solo a tratti un po’ hitchcockiana, tra note di commento musicale di inquietante tenore. Metà anni Cinquanta. È un Maigret stanco e demotivato, diciamo pure depresso, quello che incontriamo. Nonostante la mole, non ha più voglia di bere e mangiare, ha smesso pure di fumare la pipa (carina la battuta “magrittiana”, da Magritte, sul tema), tratta benone i sottoposti Janvier e Lucas, perfino l’adorata moglie, “la signora Maigret”, non sa come alleviare la sua pena esistenziale.
Ma un caso sembra ridare un senso alla sua esistenza: una ventenne di provincia è stata ritrovata sul selciato di Pigalle, in un lago di sangue, con indosso un abito di gran lusso preso in affitto qualche ora prima. Non una prostituta, l’abbiamo vista nella prima scena, pudica e impacciata, coprirsi il seno con le mani mentre provava il vestito; forse una ragazza come tante venute da fuori, devastate dalla metropoli, senza più sogni e soldi, destinata a finire in brutti giri viziosi…
Dura meno di 90 minuti il “Maigret” di Leconte: misura aurea. Tutto torna, se si amano queste atmosfere da cupa osservazione della natura umana, nell’andamento impresso al film. “Come fa confessare i sospetti?” chiede un’altra fanciulla incontrata durante l’indagine. “Li ascolto” replica quieto Maigret. Il quale, protetto da quel cappottone spinato che sembra quasi un carapace, osserva e non giudica, evita ogni commento moralistico, cerca solo la verità, per quanto meschina possa essere, forse rivedendo nella vittima qualcosa della figlia scomparsa da anni.
Specie nella versione originale con sottotitoli, Depardieu giganteggia, riducendo al minimo gesti e toni di voce, imprimendo una senile pietas al personaggio; ma non sono da meno gli altri interpreti coinvolti, specie sul versante femminile: la rediviva Aurore Clément, le più giovani Jade Labeste, Clare Antoons e Mélanie Bernier.

Michele Anselmi