L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Questo Natale c’è solo un film da vedere assolutamente: “Philomena” di Stephen Frears. Alla Mostra di Venezia, ritenendolo il presidente di giuria Bernardo Bertolucci probabilmente troppo “classico”, gli hanno dato solo un premio alla sceneggiatura. Ci sta tutto. Ma che noia l’idea in base alla quale il Leone d’oro deve laureare sempre e solamente chi “sperimenta”. E se andasse diversamente ogni tanto? Polemica chiusa, tanto è lo sport più inutile del mondo fare le pulci ai verdetti delle giurie.
All’inglese Stephen Frears piace ripetere nelle interviste: «Questo film dovrebbe vederlo il Papa. Sono proprio curioso del suo parere. Mi sembra un brav’uomo, forse apprezzerà». Papa Francesco è avvisato. Fosse interessato, non avrebbe che da rivolgersi alla Lucky Red che distribuisce “Philomena” per le feste, forse pregustando odore di Oscar per Judi Dench. Appena morta come “M” nella serie di 007 e tuttavia ogni volta capace di rinascere, è interprete superba nei panni di Philomena Lee, l’irlandese oggi ottantenne la cui storia vera è raccontata dal film toccante e perfino divertente.
Vi domanderete perché tirare in ballo il Papa. Perché la vicenda dolorosa riguarda i tristemente noti conventi delle “Magdalene Sisters” diffusi nell’Irlanda cattolica fino al 1969, già oggetto di un film di Peter Mullan vincitore di un Leone d’oro nel 2002. Allora il Vaticano molto s’arrabbiò, in particolare il cardinale Ersilio Tonini, i giornali cattolici e di centro destra gridarono allo scandalo, parlando di falsificazione della verità. Nel caso di “Philomena” sarà difficile negare quanto accadde.
Nel lontano 1952, rimasta incinta poco più che adolescente, la poveretta venne rinchiusa dal padre in uno di quei duri conventi per “ragazze svergognate” gestiti da suore; e il figlio Anthony, venuto alla luce dopo dolorosa parto podalico senza anestesia, perché lei soffrisse di più, a tre anni fu venduto per 1.000 sterline a una ricca famiglia, nella disperazione della giovane mamma. Mezzo secolo dopo, nei primi anni Duemila, rimasta fervente cattolica e poi divenuta madre di una figlia premurosa, Philomena vuole liberarsi del segreto, con un unico intento: sapere che fine ha fatto quel figlio amatissimo, senza rivendicare nulla.
C’era materia per un film strappalacrime, e in effetti con “Philomena” bisogna preparare i fazzoletti; ma il tutto dentro una cornice non ricattatoria, che alterna humour britannico e situazioni spiritose, scontro di vedute sulla Fede e riflessioni acute sul tempo che passa, letteratura popolare e temi eticamente sensibili. Un gran film, di quelli che mettono d’accordo tutti; tranne quei cinefili patentati lesti a biasimare qualche furbizia “all’americana”, che pure ci sarà, ma davvero veniale, nella confezione rivolta legittimamente al grande pubblico.
«Sin dall’inizio ho capito quanto fosse controverso l’argomento, quindi ideale per giocare sulla complessità dei sentimenti» spiega il regista di “The Queen”. Nella realtà, nonostante il torto subito in gioventù e un supplemento di menzogne recenti, Philomena perdonò la Chiesa, addirittura le suore ancora in vita. «Io non ne sarei capace, francamente, trovo quel perdono la cosa più drammatica della storia» ammette Judi Dench. Mentre lo sceneggiatore Steve Coogan, pure attore nei panni del vero giornalista Martin Sixsmith che aiutò la donna nella lunga indagine, precisa: «Non accusiamo la Chiesa cattolica di mezzo secolo fa applicando un punto di vista odierno. Molte suore non si comportarono così male, alcune aiutarono addirittura quelle infelici ragazze a crescere i loro figli. Ma restano due fatti: un bambino tolto alla madre per soldi e la “copertura” della verità proseguita per anni».
Poi, però, c’è il film. Racchiuso nella misura ideale di 94 minuti, “Philomena” emoziona, commuove, appassiona, fa ridere e riflettere, insomma restituisce un senso schiettamente popolare, senza svendersi sul piano dello stile, alla parola cinema. Si farebbe un torto allo spettatore rivelando come va a finire, perché la sorpresa c’è, anche notevole. La vita, talvolta, è più romanzesca della letteratura, e questo è uno dei casi. Vi basti sapere che la strana coppia composta da Philomena e Martin, lei buffa e sempre restia ad auto commiserarsi, lui giornalista cinico appena licenziato ingiustamente dal premier Blair, seguiranno una traccia che li porterà fino a Washington, a un passo dalla Casa Bianca, e poi di nuovo al convento di Roscrea. In fondo, nel legame che si crea tra i due c’è qualcosa del rapporto madre-figlio; il film vi allude con pudore, mettendo a confronto due mondi culturali così diversi ma in fondo conciliabili, per approdare a una quieta affermazione di verità.
Battuta memorabile: «E se fosse obeso? Hai visto come sono grandi qui le porzioni?» si chiede Philomena, benissimo doppiata da Marzia Ubaldi, al suo arrivo a Washington, dove tutto le appare bello e fatato, non sapendo se come e troverà quel figlio sempre adorato che le strapparono dal seno.
Michele Anselmi