L’angolo di Michele Anselmi 

C’è un modo concreto per testimoniare subito una calda vicinanza nei confronti dei giovani iraniani, soprattutto donne, che lottano nelle strade non solo di Teheran contro le becere imposizioni del governo iraniano in fatto di velo islamico e libertà individuali. Andando a vedere subito “Gli orsi non esistono” di Jafar Panahi che esce nelle sale italiane giovedì 6 ottobre, con una quarantina di copie, targato Academy Two. Presentato in concorso alla Mostra di Venezia, dove è stato premiato con il Premio speciale della giura, il film è stato girato segretamente dal regista 62enne purtroppo rinchiuso in carcere dallo scorso luglio, in attuazione di una condanna a sei anni di reclusione comminata tempo fa.
Fa bene quindi il distributore italiano a organizzare una serata speciale “con la speranza di aiutare a comprendere la situazione attuale in Iran e la condizione del regista iraniano”: succede proprio giovedì, alle 20.30, al romano cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti: la giornalista Francesca Gnetti di “Internazionale” e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, introdurranno la proiezione della versione originale sottotitolata del film. E naturalmente si parlerà delle sventurate Mahsa Amini e Hadis Najafi uccise dalla furia della cosiddetta “Polizia morale”, anche della nostra connazionale Alessia Piperno arrestata qualche giorno fa, forse per gli stessi motivi.
Poi, certo, c’è il film. Il titolo, appunto “Gli orsi non esistono”, richiama una battuta che echeggia a un certo punto a proposito di una leggenda: “Non ci sono orsi da queste parti, la nostra paura dà potere agli altri”. Ne consegue che bisogna ribellarsi, conservare la propria dignità, non farsi calpestare da un regime occhiuto e ambiguo di natura teocratica.
In Turchia si sta girando di nascosto un film che forse non è solo un film: un uomo e una donna iraniani aspettano due passaporti falsi, si direbbe rubati a turisti stranieri e modificati nelle foto, per scappare alla volta della Francia. La scena per strada viene interrotta, non piace allo stesso Panahi, nel ruolo di sé stesso, che segue le riprese al computer da un remoto villaggio rurale iraniano ai confini con la Turchia.
Anche lui, riparato lì per sfuggire all’arresto, ha i suoi problemi con la piccola comunità locale. Un trentenne geloso l’accusa di aver scattato una fotografia che rivela il tradimento subito dalla sua fidanzata, lui giura di non aver fatto nulla del genere, ma l’arcaica tradizione locale impone una specie di rito pubblico per chiudere “l’incidente”. Paziente e ben disposto verso quella gente, Panahi mostra tutti i suoi scatti fotografici, ma non basta ancora allo “sceriffo” locale; e intanto tutto sembra volgere al peggio, sia in Turchia per i due fuggitivi, sia in quella piccola comunità scossa da colpi di fucile.
La doppia storia va letta in una dimensione simbolica, direi metacinematografica, anche se Panahi usa un registro realistico nel raccontare le due situazioni che finiscono col riverberarsi l’una nell’altra, con digressioni anche di sapore etnoantropologico. Alla fine, nel film, gli eventi drammatici consigliano al regista di scappare a bordo del suo Suv per non trovarsi nei guai: ma – ecco il dilemma morale agitato – si può sempre sfuggire alle proprie responsabilità?
Il precedente “Tre volti” forse era venuto meglio, ma anche questo “Gli orsi non esistono”, una volta ben capito il dispositivo drammaturgico adottato, si dispiega come un’affettuosa, amarissima, cine-lettera di Panahi al suo tormentato Paese.

Michele Anselmi